La storia miracolosa di Salvatore Todaro
“Il comandante”: il romanzo atipico di Veronesi e De Angelis celebra la grandezza di valori senza tempo
L’ultimo romanzo di Sandro Veronesi, Il Comandante (Bompiani), è atipico per almeno due ragioni. La prima: mai accaduto nella sua lunga carriera costellata da una ressa di premi e riconoscimenti, il libro è scritto a quattro mani con il regista Edoardo De Angelis. La seconda: prima di lavorare al romanzo, i due hanno co-sceneggiato il film omonimo – con Pierfrancesco Favino – che verrà proiettato in anteprima mondiale all’apertura della ottantesima Mostra d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, dove è anche in concorso.
Fu Alberto Moravia a consigliare al giovane Veronesi di non cimentarsi con le sceneggiature tratte dai suoi romanzi, di lasciarle scrivere agli altri, a chi di mestiere fa solo quello. Glielo disse puntandogli contro il lungo dito ossuto quando era il suo direttore a Nuovi Argomenti e, da allora, lui aveva avuto cura del monito. Interrogato sulla recente anomalia, come ogni grande scrittore Veronesi rigira i fatti a modo suo: “Tecnicamente”, mi dice, “dato che abbiamo iniziato a scrivere prima il film del romanzo, è come se avessimo tratto la storia scritta da quella girata”.
Dunque, ha tenuto fede al proposito. Dunque, Moravia non è stato tradito. Ma anche se così non fosse, non è questo il punto perché è l’eccezione che può andargli in soccorso. “La storia che ha portato alla nascita di questo libro è miracolosa, e una storia miracolosa deve essere raccontata”, scrive Veronesi nell’introduzione. Siamo nell’estate del 2018.
Un’ondata migratoria di giorno in giorno più massiccia travalica i pericoli del mare, i suoi rischi e le incognite. Viaggi per ciascuno dei migranti colmi di disperazione e di speranza, viaggi che dai lager libici provavano a spingersi verso la costa italiana e così verso la salvezza. Ciò che per Veronesi rende quell’estate insopportabile è il sommarsi all’ondata di profughi a di sopravvivenza di un’altra ondata, ugualmente massiccia, incontenibile e sconvolgente: la xenofobia che stilla dai commenti sui social, l’accanirsi su chi è finito in mare e ora è aggrappato a qualche relitto di fortuna, o al relitto di una vita con le ore contate. Cosa giustifica una tale violenza?
Terza anomalia: per la prima volta in vita sua, Veronesi fonda una associazione. La chiama: Corpi, a significare la vicinanza fisica e non solo morale a quelle parabole di vita o di morte, e come se non bastasse, di irruenza e di dileggio. Raduna attorno a sé amici e conoscenti, scambia mail, messaggi, s’indigna e s’interroga. Poi all’improvviso: una svolta. L’ammiraglio Pettorino, allora comandante della Guardia costiera, rilascia un’intervista sul sito di Avvenire e ricorda la figura di Salvatore Todaro.
Sono in pochi a sapere chi sia. Todaro fu l’ufficiale della Regia Marina italiana che nel pieno della Seconda guerra mondiale disobbedì agli ordini dei tedeschi e salvò i nemici appena affondati col suo sommergibile. “Noi siamo marinai”, aveva detto dopo aver disatteso agli ordini dell’Ammiraglio tedesco. “Marinai italiani che hanno alle spalle duemila anni di civiltà. Noi queste cose non le facciamo”. Dritto, cristallino, quasi sovversivo nella sua semplice umanità.
È la scintilla da cui s’accende il recupero di una figura ingiustamente immersa della dimenticanza collettiva. Siamo nel 1940. Le voci su Salvatore Todaro si rincorrono, alimentandosi e poi smentendosi. Sul crinale del giorno, quando all’alba del 28 settembre 1940, gli uomini del suo equipaggio s’imbarcano sul sommergibile Cappellini per andare in guerra, di lui nessuno sa niente. Alcuni immaginano addirittura che il Comandante resterà a terra, dato che un incidente lo costringe a vivere in un busto d’acciaio che gli smorza il respiro.
Invece no. Todaro è pronto a guidare la sua ciurma negli abissi del mare, fra le trappole e i pericoli, è pronto a combattere per l’Italia. Una trincea immersa nell’acqua, la loro. Una polifonia di voci e di dialetti – Marcon, aiutante di bordo, faccia sfregiata e accento veneziano; Schiassi che con il suo idrofono, come un cardiologo del mare, ausculta l’oceano; e ancora: Stumpo, Stiepovich, Giggino. Un canto corale a cui si aggiungono le voci di chi è rimasto a terra, come la moglie del Comandante, Rina. Una melodia a volte straziante, a volte perfino comica di confessioni, sfoghi, preghiere, domande taciute o urlate, di paure e di speranze. Tutte le riflessioni su ciò che potrebbe essere o che sarà esplodono solitarie nell’immersione. Poi ecco l’istante in cui si torna al silenzio. Lungo la linea dell’orizzonte, si profila la sagoma di un mercantile a luci spente. Siamo in guerra. Bisogna agire e affondarlo. Bisogna fare in fretta. È adesso che il Comandante segue il lampo di una decisione dentro cui galleggiano come schisi sopravvissute negli anni i precetti di una civiltà millenaria. Quei corpi a galleggiare in mezzo l’oscurità dell’acqua non sono nemici. Non più. Secondo la legge del mare, quei corpi appartengono a dei naufraghi.
È uno degli episodi meno conosciuti della Seconda guerra mondiale e, insieme, uno dei più stupefacenti. La polifonia di voci fin qui accordata si tramuta in un urlo: il grido di speranza per un’umanità che affiora senza calcolo e senza preavviso, uno strillo di rabbia per la follia della guerra o l’assurdità della morte. Veronesi e De Angelis portano a galla una storia finita negli abissi dell’oblio e celebrano così la grandezza di valori senza tempo, l’enorme coraggio di chi non si è fatto remore ad affermarli, nonostante e contro tutto.
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