Sarei tentato di dire che il dibattito apertosi su questo giornale – che ha preso le mosse da un articolo di Fausto Bertinotti – sulla crisi politica della sinistra sia un bene in sé qualunque possa essere l’esito cui porterà. Del resto le discussioni non chiudono un percorso, casomai lo aprono. Ed è da troppo tempo che un tema di tale rilevanza veniva oscurato, se non negletto, a causa del prevalere delle urgenze tattiche ed elettorali. Cosicché, anche nel campo della sinistra che si autodefinisce d’alternativa, la questione resta schiacciata dal tema dell’alleanza o meno con il Pd, in nome di un centrosinistra – senza trattino non per scelta ma per assenza della sinistra stessa – oppure in modo speculare da quello della somma tra i micropartiti esistenti e i movimenti dei vari territori al fine di dare vita a cartelli elettorali pronti a sfasciarsi il giorno dopo la scadenza del voto, vuoi per i miseri risultati raggiunti nella stessa, vuoi per assenza di un minimale programma politico capace di tenere insieme oltre l’immediato le forze che ne fanno parte.

Se si vuole un’ennesima conferma di ciò, basta leggersi la discussione comparsa su il manifesto dopo un severo articolo di Norma Rangeri all’indomani del flop delle liste di sinistra non piddina nella recente tornata di voto amministrativo. Il quadro che ne esce è sconfortante poiché, fatta eccezione di qualche sforzo individuale per cercare una strada praticabile per unire politicamente ciò che si avverte esserci a livello di sinistra nel sociale, chi rappresenta forze organizzate, per quanto piccole, è rimasto prigioniero o del proprio sistema di alleanze o della propria gelosa identità. Eppure mi risulta improponibile la prospettiva di una scomparsa definitiva e irreparabile di una sinistra dotata di credibilità e massa critica, così come il certificato di morte del movimento operaio rilasciato da Biagio de Giovanni, qualche giorno fa in queste pagine. Certo, quel «movimento complesso, – per usare le parole di quest’ultimo – pieno di idee, di correnti diverse, di letture della storia, di visioni istituzionali… addirittura di previsioni sul destino dell’umanità» si è a dir poco isterilito, ha perso dimensione, spessore e profondità, in alcuni casi riducendosi a una penosa caricatura di quello che il movimento operaio era stato per larga parte del Novecento. Ma il conflitto sociale, in forme totalmente innovative o anche in quelle classiche rivisitate e ripraticate, esiste, pur non avendo l’esplosività di un tempo, è ben visibile, malgrado i tentativi di nasconderlo come polvere sotto il tappeto. Può diventare “parte di un processo ri-Costituente” o “istituente” come scrive Bertinotti, citando Roberto Esposito.

Certo si tratta di distinguere i conflitti, infatti è sempre meglio parlarne al plurale, leggere le loro motivazioni di partenza, le loro dinamiche di sviluppo. Non sta scritto da nessuna parte che i conflitti in quanto tali hanno tutti un carattere intrinsecamente progressivo da cui una sinistra politica, se esistesse, potrebbe estrarre, quale nuova levatrice, il soggetto sociale portatore di una radicale trasformazione. Esistono anche conflitti regressivi, e in questi giorni ne abbiamo esempi evidenti e non trascurabili quanto a dimensioni e caratteri, come i no-vax che annodano i loro diversi rancori attorno a quel “significante vuoto” – come avrebbe detto Ernesto Laclau – rappresentato dal rifiuto del vaccino o di ciò che lo certifica, il green pass. Nello stesso tempo i conflitti che si sviluppano in difesa di una condizione sociale e di lavoro aggredita non è detto che siano di per sé capaci di costruire quella coalizione sociale che permetterebbe loro non solo di aumentare la forza d’urto, ma di creare egemonia capace di non spegnersi neppure a fronte di una momentanea sconfitta. Anche se constatiamo delle eccezioni da valorizzare, come quella delle lavoratrici e dei lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio che dietro quel “Insorgiamo” vogliono sottolineare più che un auspicio un dato ormai di fatto, grazie alla capacità di coinvolgere cittadinanza, giovani, lavoratori e precari di altre unità produttive presenti nel territorio, intellettualità e giuristi del lavoro.

Non voglio trovare il socialismo in una lotta sola. Tra l’altro vi sono altri esempi oltre quello della Gkn. Non costituiscono un movimento, quanto il puntiforme realizzarsi di momenti di lotta avanzata. Ma va sottolineata e valorizzata la capacità emblematica di uscire dai confini di un conflitto sindacale di tipo difensivo e di porre un tema assai poco coltivato nel nostro paese da decenni, quello di una fabbrica autodiretta. Il che rende ancora più evidente, nel confronto, lo squallore nel presunto cielo della politica. Non è ancora un programma economico alternativo. È qualcosa di molto meno ma, in un certo senso, anche di più. Non sviluppa ancora un progetto organico di trasformazione della società; lambisce senza investirli in pieno i punti alti della riorganizzazione e della trasformazione capitalista, come la sempre maggiore incidenza della produzione di beni immateriali su quelli materiali. Ma vuole sottrarre il carattere sociale della produzione alla finalizzazione e al comando del capitale; revoca in dubbio il carattere totalizzante di quest’ultimo; tramuta in prassi ciò che era al massimo solo in teoria; pratica l’obiettivo prima ancora di avere formulato un programma generale.

È poco? È fragile? Durerà? Domande lecite e persino drammatiche. Ma per rispondere non retoricamente bisogna coltivare con cura queste esperienze, moltiplicarle e allargarle a quei territori ove l’intelaiatura del potere economico garantisce ad esso una nuova dinamicità. È questa la componente più viva e innovativa di quella democrazia organizzata – peraltro in linea con lo spirito e la lettera della nostra Costituzione, nelle parti non a caso mai applicate – di cui abbiamo bisogno e alla cui necessità ci richiama Michele Prospero nel suo articolo. Se constatiamo, sulla base anche di lavori di eminenti studiosi, che tra il capitalismo della finanza globale e la democrazia istituzionale – quella che un tempo avremmo chiamato borghese – si è aperta una incompatibilità non ricomponibile, come pensiamo di ricostruire quella democrazia organizzata dove meglio si possono affermare le istanze delle classi subalterne, se non agendo sui e nei luoghi produttivi ove si crea il valore, negli e sugli snodi delle moderne catene della valorizzazione, nei punti ove si riproduce l’accumulazione che ridà forza e capacità di dominio al capitale?

Queste stesse esperienze, che sono più che un moltiplicarsi di conflitti perché fanno intravedere la possibilità di costruire una coalizione sociale, ci dovrebbero però suggerire che non si può pensare di contrastare l’impoverimento del lavoro e la sua frammentazione semplicemente attraverso il collegamento tra loro di rivendicazioni di natura sindacale. Né è possibile affidarsi ad una sorta di riformismo dall’alto, seppure allargato su scala europea, come dimostra la stessa storia del nostro paese che conobbe un’unica stagione di grandi riforme e di democratizzazione negli anni Settanta, dopo il ’68-’69, dallo Statuto dei diritti dei lavoratori alla riforma sanitaria, proprio in compresenza di un movimento operaio, studentesco, intellettuale e popolare, di proporzioni purtroppo non più ripetute. Oggi le migliori esperienze di lotta sociale non fanno altro che rendere più evidente e denunciare l’impermeabilità del sistema politico. Non c’è alcun “momento Draghi” di cui la sinistra possa approfittare, per l’inconsistenza, se non l’assenza, dell’uno e dell’altra. Le “operazioni del capitale”, scrivono Mazzadra e Neilson (nel loro recente Operazioni del capitale. Il capitalismo contemporaneo tra sfruttamento ed estrazione), sono politiche e tutt’altro che meramente economiche o tecnologiche. Mirano a inglobare le nuove esperienze di cooperazione, di conoscenza, di cura e di relazioni affettive nella politica del capitale, cioè quel “fuori” (i “barbari” direbbe Bertinotti?) che il capitale incrocia ma che originariamente non gli appartiene.

Per reggere lo scontro serve quindi una nuova soggettività politica della sinistra. Lucio Magri – che abbiamo recentemente ricordato in un convegno a Rimini nel decennale della scomparsa – in uno scritto del 1987, ma di straordinaria attualità, avvertiva, con il linguaggio del tempo, che «una soggettività antagonista non si esaurisce più nel partito, il partito ne è solo una componente, sia pure essenziale». Appunto. Serve un pensiero politico strutturato e organizzato, una nuova soggettività politica che ridia vita alla sinistra. Certamente le profonde modificazioni intervenute nel lavoro a seguito della rivoluzione conservatrice messa in atto dal capitale su scala planetaria lungo l’arco degli ultimi quattro decenni, compreso l’allargamento dell’area del lavoro dipendente, qualunque sia la definizione giuridica dei rapporti di lavoro e quindi le modalità della sua retribuzione, rendono impossibile immaginare che la classe operaia svolga quel ruolo di avanguardia sociale che le veniva attribuito un tempo. È in campo una pluralità di movimenti, dai giovani alle donne. Non producono solo atti, ma cultura, nuove modalità organizzative e relazionali che sarebbe inutile cercare nella tradizione del movimento operaio, perché sono oltre pur non prescindendo da esso. Di queste il nuovo “intellettuale collettivo” dovrebbe alimentarsi.