Il Coronavirus è un fenomeno epocale, basta minimizzarlo

Se tutti gli scienziati (finalmente rivalutati) usano espressioni del tipo “un fenomeno epocale”, “ rarissimo”, “diverso” da tutti i virus del passato sia per origine che per capacità e velocità di diffusione e contagio. Se i grandi del mondo, i capi di Stato dell’Occidente, ora lanciano allarmi tardivi dopo aver sperperato tempo prezioso. Se il negazionista Trump si arrende e dichiara “l’emergenza nazionale” e New York spegne tutte le sue luci. Se si muovono Merkel, Sànchez e Macron (“è una guerra”) e persino Boris Johnson è costretto ad abbandonare la cinica politica “dell’immunità di gregge”. Se accade tutto ciò, ha un senso, o no?

Se accade tutto ciò, allora ha senso tenere gli occhi aperti su ciò che pare piccola cosa, per esempio sulla casa di riposo di Barbariga, con sette anziani deceduti nell’arco di pochi giorni e cinque operatori risultati positivi al coronavirus. Siamo in provincia di Brescia, la città sul cui quotidiano locale ogni giorno sono almeno cinque le pagine dei necrologi. E poi Lombardia chiama Marche. Seicento chilometri da Brescia a Macerata, dove nella casa di riposto del piccolo comune di Cingoli ci sono 37 anziani positivi su 40, cui vanno aggiunte un’infermiera e due operatrici, una delle quali ha contagiato anche il proprio marito.

La casa di riposo è un luogo chiuso, quasi come un carcere. Se parte lì il contagio, è un disastro pandemico. Lì ci sono i padri e le madri e le nonne e i nonni di tanti giovani e meno giovani che oggi paiono ancora non capire. Sono i vecchi che oggi muoiono o rischiano di morire soli, senza esequie, lasciando dietro di sé solo disperati sensi di colpa in chi è stato costretto a lasciarli in quell’abbandono. E anche in chi, da fuori, può averli inconsapevolmente contagiati. Già, il contagio è il vero protagonista, un elemento fondamentale che differenzia il Covid-19 da tutti gli altri virus conosciuti, dalla Sars a Ebola, che sono stati più che altro delle semplici avvisaglie di quel che sarebbe potuto succedere e che purtroppo è accaduto.

Forse, ha scritto di recente Ilaria Capua, quello più vicino al coronavirus è stato quello del morbillo, che deriva dal virus della peste bovina, che ha fatto un mutamento di specie proprio come il coronavirus, e che esiste nell’uomo da quando questi è entrato in diretto rapporto con i bovini, cioè da qualche millennio. Ma quel che è del tutto nuovo oggi, in assenza di terapia e di vaccino, è la velocità del contagio che, nel mondo globalizzato e interconnesso, rende impossibile calcolare quanti malati e quanti morti dovremo contare nelle settimane e nei mesi prossimi.

Per questo e per molte altre ragioni è assurdo, sterile e soprattutto inutile gridare, come fa per esempio Vittorio Sgarbi, alla “democrazia decapitata” o ripetere, come fa Giuliano Cazzola, che esiste soprattutto la “pandemia di panico”. In un regime liberale, la responsabilità è un valore importante quanto la libertà di movimento e l’osservanza di regole suggerite da scienziati competenti non è dettata dal panico ma al contrario dal saper privilegiare la ragione rispetto al nostro istinto. Che sarebbe quello di fare spallucce, di pensare che un morbo sconosciuto e molto contagioso non sia nulla di più di un’influenza ( ma siamo ancora all’”uno vale uno”?) e di arrivare a gesti sconsiderati come quello di affollare i Navigli o il ponte Milvio. Cosa accaduta nei primi giorni del contagio e non ancora del tutto abbandonata nonostante la chiusura totale dei locali.

È così difficile da capire che ci troviamo davanti a un’onda inarrestabile, che può essere fermata solo se per un certo periodo dovremo non circolare più, non avere contatti gli uni con gli altri? Questa è la principale cura, oggi, per arrestare il coronavirus: fermare il contagio. I virologi più preparati lo avevano detto fin dal primo momento, e lo stanno ripetendo in ogni attimo tutti gli operatori sanitari: non abbiamo mai visto niente di simile, e ci sono ancora molti casi sommersi. State in casa, è questa la vostra medicina.

Ma c’è ancora molta sottovalutazione, a Roma e nel sud d’Italia, e persino nella Lombardia semi-chiusa e che avrebbe dovuto essere blindata. Il professor Massimo Galli, che guida il dipartimento malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, e che abbiamo imparato a conoscere in tanti collegamenti televisivi, sta ora lanciando un nuovo allarme: attenzione alla città di Milano, ci sono avvisaglie di focolai importanti di infezione. 813 casi in città possono sembrare relativamente pochi rispetto a un milione e trecentomila abitanti, ma il dato rilevante sono i 233 delle ultime 48 ore. E sono numeri destinati a galoppare, in una curva che va solo verso l’alto.

Ed è quella la proporzione che dovrebbero saper fare anche gli intellettuali che hanno fatto il liceo classico e poca matematica. “Il risorgimento dall’emergenza – avverte con un chiaro riferimento storico il professo Galli – passa dalle prossime cinque giornate”. Le cinque giornate di Milano. E del resto del Paese.