L'intervento
Il Coronavirus ha messo in evidenza il caos Regioni, necessaria altra riforma
Quando potremo guardare dal retrovisore la drammatica stagione della pandemia, non saranno poche le domande a cui trovare una risposta che sia insieme nuova e coraggiosa. Non mi soffermo qui sulle polemiche roventi, e troppo spesso scomposte, sul poco o sul tanto che l’Europa ha fatto. I nodi, si sa, vengono al pettine da soli e le repliche della realtà fanno sempre giustizia di ogni mistificazione. Desidero soffermarmi qui su una questione la cui importanza ha condizionato non poco la risposta complessiva che il “sistema istituzionale Italia” ha dato alla minaccia del Covid-19. Salta subito agli occhi una pericolosa asimmetria fra i poteri (esercitati) dalle Regioni e il (mancato) coordinamento del governo centrale.
È imbarazzante, per esempio, scorrere l’elenco delle ordinanze regionali: si arriva agevolmente a contarne centinaia. Ogni ordinanza, riferita a un particolare aspetto dell’emergenza, ha puntato a disciplinare gli aspetti più minuti del lockdown: dal modo di camminare in strada, o dal come disporsi in fila davanti ai supermercati. Gli italiani hanno assistito smarriti e confusi, in un momento in cui sarebbe stato necessario ricevere indicazioni semplici e chiare, alla fioritura di ordinanze e Dpcm quasi sempre in conflitto fra loro. Come tacere, per esempio, il caos istituzionale scatenato su chi ha il potere di decidere una “zona rossa”? O sulle mascherine, da rendere obbligatorie in alcune Regioni o facoltative in altre? E a quali riflessioni inducono l’annuncio di Fontana e Zaia di riaprire tutto il 4 maggio e la reazione di De Luca che si è detto pronto a chiudere i confini della Campania a lombardi e veneti?
Una situazione simile non è risolvibile, come vorrebbero i semplificatori di turno, affermando che tutto deve tornare in capo allo Stato: sarebbe l’ennesima fuga dalla realtà, strada preferita dal grillismo ormai decadente e in via di estinzione. A mio avviso si pone, invece, un problema di reset istituzionale: a 50 anni dalla loro istituzione, il Parlamento deve riflettere sulle funzioni delle Regioni, nate come enti di programmazione e diventate via via enti di governo con poteri esecutivi e risorse proprie sempre più ampi, per modellare un nuovo equilibrio nell’esercizio di determinate funzioni.
Si prenda, per stare sulla cronaca, la sanità. L’inversione dei ruoli – lo Stato coordina, le Regioni governano – ha portato alla nascita di 20 differenti sistemi sanitari. Con tutto ciò che questo comporta: 20 apparati burocratici, 20 modi diversi di gestione degli ospedali o di organizzare la medicina sul territorio, diventato un deserto in anni di tagli sanguinosi al settore. Ricordo un particolare: la riforma sanitaria del 1978 prevedeva la destinazione del 30% delle risorse alla medicina cronica e il 70% alle acuzie. Quante Regioni hanno ottemperato a questa divisione delle risorse? Se davvero il 30% delle risorse fossero andate alla medicina cronica tutti i contagiati da Covid avrebbero trovato un posto letto con meno problemi. Sono stati chiusi ospedali, e non perché ce lo ha chiesto l’Europa, come vorrebbe far credere Salvini, ma semplicemente perché i governi italiani, di qualsiasi colore politico, hanno scelto i “tagli lineari” come risposta ai problemi di finanza pubblica. Se la politica ha, fra gli altri, il dovere di scegliere che cosa finanziare, le sue scelte le ha fatte e il conto è sotto i nostri occhi.
Fra le urgenze da affrontare, una volta allentata la morsa dell’emergenza pandemica, va messa senz’altro una riflessione aperta, franca e onesta su come ricalibrare il ruolo delle Regioni in generale e, più specificamente, sul governo della sanità. Mi chiedo, quando assisto alle polemiche sul troppo differente costo di una siringa a Catanzaro o a Milano: per quale ragione devono esserci 20 sistemi sanitari diversi se ogni intervento chirurgico, se ogni laccio e ogni flebo, costano allo stesso modo? Quando la siringa arriverà allo stesso costo in ogni ospedale o in Azienda Sanitaria Locale d’Italia? Rimuovo questo pensiero, che so essere fastidioso per molti politici, autonomisti storici o di recente fede, e dico che l’autonomia regionale è stata una conquista sotto molti aspetti, ma quella conquista è spesso avvenuta a spese dell’efficienza dello Stato, della sua capacità perfino ordinamentale.
La riforma pasticciata del Titolo V, pasticciata dal centrosinistra ma non resa più gestibile dal centrodestra, è una di quelle urgenze da affrontare senza esitazioni. Il “neo-centralismo regionale”, costruito a spese dello Stato ma anche delle Province, rischia oggi di aggravare lo squilibrio delle nostre istituzioni. Si pensi, solo per semplificare, ai 20 differenti sistemi elettorali. Ogni Regione si è fatto il proprio meccanismo di voto: qui ci sono i listini, là non ci sono. Con il che si viola lo spirito della Costituzione che vorrebbe per tutti i cittadini lo stesso livello di rappresentanza politica a parità di sistema di voto. Sono state cancellate le Province, ma nessuno si è mai chiesto, a distanza di 5 anni: con quali benefici per la finanza pubblica o per la funzionalità dei territori?
Perché non si è scelta la strada più logica di una loro riduzione di numero, dimezzandole ma conservando in capo alle Province la manutenzione delle strade e delle scuole, ridotte nelle condizioni penose che vediamo? Al loro posto la politica ha creato l’Area metropolitana, il cui presidente è il sindaco del Comune capoluogo. Mi chiedo, al netto della qualità del sindaco, ma come può il primo cittadino di Torino pensare di governare un territorio con 320 Comuni? Lo squilibrio delle istituzioni è stato anche aggravato dall’afasia di una ceto politico privo di autentici leader capaci di un “pensiero lungo”: con l’eccezione di Silvio Berlusconi (e, parzialmente, di Matteo Renzi sull’altro versante politico), un’eccezione che è un’aggravante per una politica che non ha saputo produrre altri protagonisti ma solo buoni comunicatori e incantatori elettorali.
Si veda la miseria delle polemiche sull’utilizzo del Mes, diventato un fondo europeo, almeno per le spese sanitarie, da cui l’Italia potrebbe attingere 36 miliardi per rimettere in piedi un sistema sanitario e ripudiato da M5s, Lega e FdI, cioè da partiti che vendono patriottismo a buon mercato per lucrare consensi contro l’Europa. Contro cioè l’unica istituzione che ha finora aiutato concretamente l’Italia.
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