Il coronavirus nasconde le diseguaglianze, ma rafforza il senso di comunità

Da sponde opposte – l’India di Modi, l’America di Trump Arundhati Roy e Naomi Klein, hanno visto nella pandemia da Covid-19 una “battuta d’arresto del capitalismo”, una sorta di catalizzatore capace di evidenziarne le “vergogne nascoste”, dalle disuguaglianze strutturali, sociali ed economiche all’indifferenza di fronte agli orrori che produce. La lunga marcia di milioni di poveri, cacciati dalle città dell’India dai datori di lavoro e diretti a piedi verso i loro villaggi, parla della stessa divisione di classe di cui sono testimoni gli afroamericani e i latini, lasciati fuori dagli ospedali negli Stati Uniti. Importante, per entrambe, è riconoscere che la pandemia ha segnato una rottura e che non si può pensare di “ricostruire il futuro sul passato”.

Nella felice immagine di Arundhati Roy il coronavirus potrebbe rappresentare «una porta, un gate-away, tra un mondo e il prossimo». Dipende da noi «scegliere se attraversarlo trascinandoci dietro le carcasse dei nostri pregiudizi e dell’odio, della nostra avarizia, delle nostre banche dati, dei nostri fiumi morti e cieli affumicati. Oppure, possiamo camminare con leggerezza, con poco bagaglio, pronti a immaginare un altro mondo. E pronti a lottare per questo».
Ma come definire il “noi” da cui ci si aspetta un cambiamento così radicale? In un articolo uscito giorni fa su Il Riformista, Alberto Abruzzese giustamente rilevava come il “noi” sia diventato sempre di più l’assoggettamento dei singoli a una volontà superiore, e che solo dalla “persona”, tornata ad essere oggi carne viva – «forma individuale di essere a rischio minuto per minuto, ammalarsi, soffrire o vedere vedersi morire in solitudine» – ci si può aspettare una ribellione, un segnale di discontinuità rispetto a valori e ruoli sociali imposti.

Dalla catastrofe virale, che ha devastato ogni genere di socialità ordinaria, si salverebbe solo una individualità restituita al suo sentire immediato, alla sua “voce interiore”, al suo desiderio di sopravvivenza, e capace perciò di attivare la propria vita «lanciandola finalmente al di sopra della sovrana violenza del “noi”». Ma, paradossalmente, è proprio da una singolarità incorporata, resa oggi più consapevole della sua fragilità e dei suoi limiti dalla minaccia invisibile di un virus letale, che si comincia a far strada una verità mai del tutto riconosciuta: “nessuno si salva da solo”.

Indimenticabile ed emblematica è stata, sotto questo aspetto, la comparsa di Papa Francesco il 27 marzo su Piazza San Pietro incredibilmente vuota, figura solitaria ma sorretta dalla forza di chi sa di incarnare la comunità intera di un mondo in sofferenza. In occasione della Pasqua, così come in un precedente incontro con i movimenti sociali, nessuna delle vittime «delle politiche finanziarie e dell’ingiustizia strutturale dell’economia mondiale» – per usare le parole di Bergoglio – è stata dimenticata: dai carcerati ai profughi, ai senza tetto, ai lavoratori precari, alle donne. Se il cristianesimo è stata una rivoluzione per il mondo classico, nelle parole di un Papa dotato di una straordinaria lungimiranza politica torna ad esserlo per una civiltà che ha fatto del denaro il suo dio, dell’egoismo la sua legge.

All’Europa degli “interessi particolari” Bergoglio chiede “soluzioni innovative”, come il condono del debito che grava sul bilancio degli Stati più poveri; quanto “all’esercito invisibile” che si muove nelle periferie spinto da ideali solidaristici e senso di comunità, così come a chi lavora senza diritti e garanzia di sopravvivenza, ritiene sia giunto il momento pensare “una forma di retribuzione universale di base”.  Sulla separazione tra privato e pubblico, individuo e società, biologia e storia, inconscio e coscienza, molto hanno detto i movimenti non autoritari e il femminismo negli anni Settanta, ma le consapevolezze nuove riguardo ai “nessi” che ci sono sempre stati tra aspetti inscindibili dell’umano, sembrano essersi rapidamente di nuovo affossate, così come l’interrogativo che Elvio Fachinelli si era già posto nel suo saggio su Freud del 1967: «Come si passa da questo individuo alla generalità degli individui?». Si può dire che solo di fronte a un evento come la pandemia che minaccia oggi allo stesso modo la sicurezza del mondo e la vita di chi lo abita, la domanda del rapporto tra la singolarità di ogni essere e la comunità dei suoi simili è diventata ineludibile.

Una catastrofe che pesa su tutti e su ciascuno, sia pure con modalità e ricadute materiali e psicologiche diverse, costringe, come scrive Miguel Benasyag nel suo libro Contro il niente. Abc dell’impegno (Feltrinelli 2005), a «imparare uno strano radicalismo (…) agire diversamente in estrema singolarità per disegnare una nuova base comune». Cercare il senso della collettività, lasciarsi attraversare da elementi di una molteplicità a cui si appartiene – come sottolinea lo stesso Bensayag -vuol dire dubitare dei «grandi discorsi del tutto avulsi dalla quotidianità, di consapevolezze che non cambiano il nostro modo di vivere».

La via già indicata dal femminismo e che Bensayag riconosce e riprende nel suo tentativo di ridefinire l’agire politico, è quella che riesce a spingersi fin dentro le «acque insondate della persona» (Rossana Rossanda), che trova negli strati più profondi di noi stessi la generalità della condizione umana. L’ “azione ristretta”, il “partire da sé”, è quella che ci permette di trovare, insieme a una base comune, una inedita potenzialità collettiva. «Nel profondo della mia singolarità trovo una espressione uguale (…) posso avvicinarmi all’altro, non per stringere una alleanza superficiale, ma scoprendo ciò che nella sua singolarità esprime la stessa cosa che nella mia (…) Mettere in gioco il nostro corpo, ecco l’etica dell’impegno».

Il mondo invaso oggi dalla pandemia sconta non solo la cancellazione dei corpi e la presunzione secolare di potersi sbarazzare dei limiti propri del vivente, ma anche la violenza con cui ha fatto delle storie personali il residuo insignificante della grande Storia. Se abbiamo potuto finora permettere che i corpi dei migranti annegati in mare, dei morti sul lavoro, dei femminicidi, diventassero semplici numeri, complice la distanza che ci ha reso spettatori, oggi che le vittime del coronavirus vengono conteggiate nelle conferenze stampa del governo, come dati statistici, è impossibile volgere lo sguardo altrove, non dare volti, nomi, età, condizione sociale a chi soffre negli ospedali, nelle case, o a chi ha perso la vita in solitudine, senza funerali e compianto pubblico.

Ad accomunare, al di là di confini, culture, storiche inimicizie, egoismi nazionalistici, è la compassione, il “patire insieme”, “una prossimità all’altro, alla sua ferita”. Un sentimento raro perché «rara – scrive Antonio Prete – è l’esperienza in cui il dolore dell’altro diventa davvero il proprio dolore».