Il Corriere ha aspettato l’articolo di Segre per dire la verità sulla bugia del genocidio

C’è qualcosa che non va nell’articolo a firma di Liliana Segre pubblicato ieri dal Corriere della Sera. La senatrice a vita, nel pezzo messo in prima pagina dal quotidiano milanese, si occupa dell’uso improprio che della parola genocidio si va facendo in modo disinvolto ormai da un anno a proposito della guerra di Gaza. È questo che non va? No, non è questo.

Liliana Segre scrive che una specie di inquisizione politico-storiografica intima a chiunque, e in special modo all’ebreo, di denunciare il carattere genocidiario delle operazioni belliche condotte da Israele, con un corollario di pubblica esecrazione se l’intimato è renitente a quell’obbligo di denuncia delle attitudini sterminatrici dello Stato Ebraico. È questo che non va, nell’articolo di Liliana Segre? No, non è questo. Liliana Segre, nell’articolo pubblicato dal Corriere, spiega che “genocidio” – dal punto di vista giuridico, storico, culturale – ha un significato molto preciso, e che esistono ragioni giuridiche, storiche e culturali che impediscono di ricorrere a quella definizione per descrivere e denunciare ciò che accade laggiù dopo gli eccidi del 7 ottobre. È questo che non va bene nell’articolo di Liliana Segre? È questo richiamo all’esigenza di distinguere, di non confondere? No, non è questo.

Banalizzare la storia dei genocidi

Liliana Segre spiega che tra i motivi di ripulsa verso quell’uso disinvolto della parola c’è la constatazione della libidine (noi, più modestamente, tante volte abbiamo parlato di “orgasmo”) mostrata da quelli che vi fanno ricorso per sbattere in faccia agli ebrei – non al governo israeliano: agli ebrei – la responsabilità infamante, cioè di aver perpetrato in danno altrui le mostruosità subite dagli ebrei medesimi. È questo che non va nell’articolo di Liliana Segre? È la denuncia del fatto sotto gli occhi di tutti, e cioè che la colpa genocidiaria ha preso il posto della colpa deicida? No, non è questo. Liliana Segre scrive ancora che l’uso improprio di quella dicitura – “genocidio” – a proposito della guerra di Gaza avviene con l’intenzione, o almeno con l’effetto, di banalizzare e in fondo di negare la storia e le fattezze dei genocidi drammaticamente effettivi, e che combattere contro la malizia di quell’uso incongruo del termine non significa affatto chiudere gli occhi sui diversi crimini eventualmente commessi nel conflitto in corso, né tanto meno trascurare la sofferenza degli innocenti che li subiscono. È questo, infine, che non va nell’articolo di Liliana Segre pubblicato dal Corriere? È questo ripudio dell’idea che negare il genocidio inesistente a Gaza significhi negare l’esistenza delle atrocità della guerra e dei possibili crimini che vi siano stati commessi? No, non è questo.

Cosa non va nell’articolo di Segre

E allora che cos’è che non va nell’articolo di Liliana Segre pubblicato dal Corriere della Sera? Non va che quelle giuste considerazioni, che quelle opportune denunce, che quei richiami a dare il nome proprio alle cose, che quegli allarmi a fronte dell’abitudine di dare alle cose il nome sbagliato, rechino la firma di una sopravvissuta di Auschwitz. Non va, nell’articolo di Liliana Segre, il fatto che sia stato necessario attendere l’articolo di Liliana Segre per leggere le cose che scrive Liliana Segre.

Ieri, nel corso di una rassegna stampa radiofonica, un ex direttore del Corriere, Paolo Mieli, a proposito di questo articolo di Liliana Segre diceva che avrebbe fatto rumore, che avrebbe fatto discutere. Vero. Verissimo. Non sarebbe successo se le cose scritte da Liliana Segre non avessero avuto i tratti dello scandaloso inedito. Non sarebbe successo se, pur non diventandone la linea, le considerazioni di Liliana Segre fossero state reperibili, prima, a firma di altri, sul Corriere, anziché essere affidate a quella testimone illustre dopo un anno di uso sconsiderato e “antisemita” di quella dicitura. Ecco ciò che non va nell’articolo di Liliana Segre pubblicato dal Corriere della Sera. Non va il fatto che rechi le parole che avremmo voluto veder scritte molto prima. E da molti altri.