Il criterio dell’appartenenza come riscossa sociale: i diritti da rivendicare per tutti e non contro qualcuno

Le conquiste politiche del liberalismo e della socialdemocrazia si sono concretizzate con gli interventi dello Stato sociale volti a universalizzare i diritti dei cittadini. Stando però all’attivismo politico organizzato sulla base dei caratteri dell’identità nato negli Stati Uniti e da lì diffusosi in tutto l’Occidente, questa forma di universalizzazione ha finito per dare vita a pratiche di normalizzazione e livellamento dell’esistenza che rovesciano le presunte compensazioni in nuove forme di discriminazione.

Gli schemi di valore prevalenti si orientano cioè sui modelli interpretativi consolidati nel tempo, e quindi giustificano gli stereotipi e i pregiudizi convenzionali. Il criterio dell’appartenenza (sociale, di genere o religiosa) dell’individuo è così diventato la punta di lancia della riscossa sociale, per cui è alla dimensione simbolica connotata emotivamente che viene demandato il compito di porre riparo alle ingiustizie, piuttosto che, invece, alla speranza di poter incidere sulle circostanze materiali che determinano condizioni di marginalità sociale. Ciò che conta è il diritto a essere definiti come ci si auto-definisce, poiché le etichette etero-definite contengono giudizi impliciti che incorporano varie forme di pregiudizio.

Le politiche della differenza e gli effetti indesiderati

Ora, le critiche rivolte al concetto di eguaglianza portate avanti da un fronte polemico che conferisce un valore assoluto all’immediatezza dei propri vissuti aiutano a mettere in luce il fatto che il misconoscimento tende a creare un senso di inferiorità che ostacola l’integrazione sociale. Rischiano però di far passare in secondo piano il problema delle crescenti diseguaglianze nelle posizioni economiche di potere, nei livelli di capitale e nelle situazioni di esistenza. È vero, cioè, che le politiche della differenza, impegnate a riconoscere un valore positivo a identità precedentemente misconosciute, hanno contribuito a ricordare i limiti di certe concezioni dell’eguaglianza e a contrastare la scarsa attenzione per la dimensione del dominio culturale e simbolico. Non, però, senza produrre effetti indesiderati.

Il primo di questi effetti è riscontrabile nel ruolo primario conferito alla dimensione simbolica rispetto alla dimensione delle diseguaglianze materiali riconducibili alla posizione socioeconomica e alla distribuzione del reddito. È come se, in buona sostanza, il valore riconosciuto alla capacità di formare e definire la propria differenza rispetto all’identità maggioritaria potesse – almeno in parte – compensare le disparità in fatto di ricchezza o l’assenza di misure istituzionali atte a riequilibrare le conseguenze di queste disparità. In secondo luogo, suddividendo la società per gruppi anziché per individui, il social-attivismo americano moltiplica all’infinito la possibilità di rivendicazioni da parte di minoranze che si sentono sottorappresentate. A cui ritiene di dover reagire promuovendo una neolingua che, oltre a vietare parole impronunciabili, si spinge a modificare grammatica e codici comunicativi, invece di tutelare gli individui economicamente più esposti con massicci interventi su scuola e formazione.

I vantaggi

Alla prevedibile obiezione a questa prospettiva, e cioè che i correttivi antidiscriminatori improntati in questo senso richiedono tempi lunghi, è opportuno ricordare i vantaggi di una società più liberale e meno polarizzata rispetto a una società percorsa da contrapposizioni culturali combattute sulla base di un discutibile concetto di “identità”. Né va dimenticata la possibilità – non sempre negativa, come si è talvolta affermato – delle cosiddette “azioni positive”, ossia delle misure atte a promuovere inclusività e partecipazione. Senza, naturalmente, che un intervento legislativo promosso con le migliori intenzioni dia luogo a forme di discriminazioni al contrario. I nuovi diritti vanno rivendicati e promossi per tutti e non contro qualcuno o contro chi storicamente – il che è un’astrazione – ne ha già goduto in passato: spostare il baricentro del ragionamento nel passato non può che creare infinite contraddizioni e confini del tutto arbitrari.

La lived experience

Inoltre, c’è da osservare che questi movimenti – nati non a caso negli Stati Uniti in assenza di un vero Welfare – rischiano di minare, attraverso il relativismo culturale, i fondamenti del pensiero filosofico occidentale, ovvero la distinzione tra contenuto e portatore, per cui a contare, in ultima istanza, è sempre la lived experience, ovvero che a pronunciarsi su una data condizione o su una certa realtà può essere solo chi la “vive” in prima persona attraverso l’unicità dei propri vissuti. Per l’attivismo politico organizzato intorno ai caratteri dell’identità (qualunque essi siano, come l’essere bianco o nero, uomo o donna, eterosessuale o omosessuale etc.), solo chi rientra in una delle categorie predefinite può esprimersi in merito a ciò che significa farne parte. Altrimenti è, ben che vada, “appropriazione culturale”.

Ciò apre la strada a una società divisa in compartimenti stagni, in gruppi omogenei a cui attribuire istanze univoche e schiacciate su una sola dimensione, oltretutto spesso connotata in senso moralistico e puritano. E, infine, questo orientamento può finire per alimentare la crescente invasività del diritto e di una politica burocraticamente alienata, capace di estendersi ben al di là dei suoi compiti, definiti dall’implementazione puramente tecnica e normativamente neutrale di norme generali egualmente valide per tutti. L’alternativa? Ripartire dalle tutele economiche, scuola e formazione (dalla scuola pubblica in quanto obbligatoria) e dal cercare di rendere gli individui, per quanto possibile, in partenza uguali – attraverso un modello di inclusività in termini di formazione – offrendo delle tutele economiche ai soggetti maggiormente esposti.

Il Welfare, una conquista di civilità

Si potrebbe obiettare che questo modello ha un costo elevato, ma quanto costa l’ignoranza? Inoltre chiediamoci: si vive bene in una società basata unicamente sulla competizione fine a se stessa dove chi proviene da una famiglia ricca, a prescindere da qualunque merito, avrà un vantaggio incolmabile rispetto a tutti gli altri? Il Welfare, per quanto i suoi confini possano essere da ridisegnare, riformare o da ripensare, non è un “costo”, ma una conquista di civiltà.