Il monito
Il Csm diventa sovranista e la politica se ne frega

Se non la storia, almeno la cronaca, si sperava imponesse, dopo l’emergere del caso (o meglio del sistema) Palamara, una nuova composizione del Consiglio superiore della Magistratura. Benché riformisti a parole, nei fatti i partiti di maggioranza non hanno voluto che fosse così. Ci si affida a una sorta di sovranismo del Csm e ad un “autogoverno” insensibile a ogni profilo di garanzie costituzionali. Il Csm ha fretta di chiudere fra le mura domestiche ogni questione evocata dal cosiddetto caso Palamara. Il Parlamento non ha nessuna intenzione di affrontarne le implicazioni.
Eppure mai come ora l’organismo è parso tanto indegno della presidenza del Capo dello Stato. Il procedimento fulmineo – e se possibile senza testimoni – che in queste settimane il Csm vorrebbe praticare sembra ispirato pregiudizialmente a tutela di quei colleghi di Palamara che con lui amavano pronunciarsi sugli incarichi di vertice della magistratura italiana. Insomma, la corporazione prima di tutto, poi la Costituzione! Il che (lo ha ricordato Paolo Mieli sul Corriere della Sera dell’altro ieri) ha finito con l’incastrare il procedimento di Palamara perfino nell’enigma del pensionamento di Piercamillo Davigo. Tutto in questa vicenda sembra miserabile, soprattutto senza alcuna considerazione della priorità del dettato costituzionale sulla legislazione ordinaria.
Certo la commistione con la politica si era già fatta esplicita da tempo. E proprio grazie e in seno al Csm. Si pensi alle correnti dell’Associazione nazionale magistrati e al divenire di tali correnti il collettore principale dell’elezione al Consiglio superiore. Invano alla Costituente Piero Calamandrei e Giovanni Leone, ma non solo loro, avevano insistito sui rischi di un Csm fondamentalmente corporativo. La preoccupazione di un “corpo chiuso e ribelle” evocata allora da Calamandrei avrebbe dovuto implicare il venir meno di quell’assurda pretesa di garantire all’ordine giudiziario la maggioranza dei due terzi dei componenti del Consiglio.
Nel 2004 in Senato, insieme all’amico Antonio Del Pennino, proponemmo come modello di composizione per il Csm quello previsto per la Corte costituzionale, con un terzo dei componenti eletto fra tutti i magistrati, un terzo dal Parlamento fra professori ordinari in materia giuridica e avvocati, e un terzo nominato dal Presidente della Repubblica, sia tra coloro che fossero eleggibili dal parlamento, sia tra i magistrati ordinari.
Quel che si è andato affermando è un mondo in cui il diritto si muove lontano dalla legislazione, ancorato all’arbitrio della giurisdizione. Non più mero lettore, ma vero e proprio creatore della norma, il magistrato tende ormai a sentirsi “giudice”, forte di straordinarie condizioni di indipendenza e assenza di controlli del suo operato e delle sue responsabilità. Dentro e fuori il vincolo professionale si è diffusa l’idea che la magistratura possa farsi Stato da sé e guardando a sé. La scelta del Csm di risolvere esso stesso, il più presto possibile, le questioni legate alla vicenda Palamara, e quindi negandole, si commenta da sola. Ma l’abdicazione in materia di Governo e Parlamento rende fin troppo onore al “sovranismo” del Csm.
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