Ne ho visti in passato (anche da vicino…) Presidenti del Consiglio affrontare campagne elettorali dicendo in premessa – con sussiego e un pizzico di alterigia – “io me ne terrò fuori”, per poi farsi trascinare nel gorgo inesorabile dello strapaese, con annessi tour promozionali in cui i ruoli si confondono, le prefetture sono mobilitate e i clientes si presentano in processione a chiedere benedizioni, bonus e provvidenze. Nel caso di Giorgia Meloni, va detto che lei si è candidata (anche se solo in funzione di specchietto acchiappavoti), e quindi nessuno può negarle qualche comizio. Ma altro è perdersi in video sciattamente goliardici e scivolare in polemiche di bottega con testate giornalistiche.

Questi sono segnali di nervosismo, figli dell’errore – politico, non comunicativo – commesso qualche giorno fa a proposito del premierato, quando ha detto “sulle riforme o la va o la spacca”, ribadendo successivamente che un eventuale voto negativo al referendum confermativo non porterebbe a sue dimissioni. Ma perché una politica esperta come lei si è infilata improvvisamente in questo tunnel senza uscite? La risposta è semplice. Giorgia Meloni vive una condizione di profonda solitudine. Come ogni leader, intendiamoci.

Come la stessa Elly Schlein – attesa, da qui a 15 giorni, al varco delle eterne forche caudine del Pd – che però nella solitudine si sta esaltando, mostrando doti di combattente che era difficile riconoscerle, e non ha l’esigenza di dover indossare il vestito buono della donna di governo. Mentre lei, l’underdog che ha scalato lo Stato, deve cambiarsi d’abito in continuazione: un giorno in giro per l’Europa a tessere la complessa rete della famiglia politica di cui è a capo, un altro a Caivano a mostrare il volto del governo del fare. Trovando il tempo per partecipare a convegni esternando in libertà, registrare video per sbeffeggiare presunti nemici, tenere a bada ministri e sottosegretari incontinenti, per non parlare dei membri regolari del suo esercito, che come aprono bocca combinano qualche guaio.

Deve fare tutte le parti in commedia, la premier, perché nella sua squadra nessun altro è in grado di stare sul palcoscenico (salvo Guido Crosetto, cofondatore del suo partito, ma con una cultura politica di ben altro spessore), neppure per fare il gioco sporco, quello – indispensabile in una campagna elettorale – di andare fuori dal seminato, di spararle grosse per farsi sentire. E consentire a lei di dare qualche bacchettata all’intemperante di turno, mostrando il volto autorevole e sereno di chi guida una nazione, non più – o non solo – un manipolo di confusi legionari. Detta in altre parole, se Giorgia Meloni non creerà una classe dirigente credibile, solida e soprattutto non dipendente da lei, la sua leadership solitaria non farà mai il salto di qualità necessario per reggere nel tempo.