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Il ddl Sicurezza, una “nomorrea penale”. Quel rapporto sbilanciato tra Stato e cittadino: il caso delle donne incinte e delle rivolte
Il 3 luglio 1910, mentre redigeva le riforme volte a ridurre il numero di detenuti che venivano mandati nel carcere di Borstal, Winston Churchill scrisse ai suoi consiglieri: «Non consentirei di certo a rendermi responsabile di un sistema di cui si possa dimostrare che aggravi la severità del codice penale». Evidentemente l’idea, tanto semplice quanto irrazionale, secondo cui un aumento dei reati e delle pene corrisponde a maggiore sicurezza non convinceva lo statista britannico.
Il ddl Sicurezza, di recente approvato dalla Camera, rappresenta invece un chiaro esempio di quella che il grande giurista Francesco Carrara chiamava “nomorrea penale”, ossia la produzione compulsiva di norme e sanzioni quale comodo escamotage (a “costo zero”) per evitare di affrontare problemi complessi.
Stato e cittadino
Il risultato è un profluvio di nuove ipotesi di reato e di aggravanti che vanno ad aggiungersi alle oltre 6000 fattispecie criminose presenti nell’ordinamento italiano. Il principio di ultima ratio del diritto penale non è mai stato preso troppo sul serio dal legislatore (non solo italiano), e il ddl in questione è l’ennesima manifestazione di una pervasiva ideologia penale che trasforma l’idea stessa di giustizia: lo Stato non è più debitore di giustizia, ma di sicurezza; cosicché il concetto di sicurezza diviene orizzonte totalizzante della penalità.
Nello specifico, il corposo disegno di legge presenta preoccupanti scostamenti dai principi costituzionali in materia penale (proporzionalità della pena, offensività, tassatività e determinatezza dei precetti) e segna un rapporto tra Stato e cittadino fortemente sbilanciato a favore del principio di autorità. La maggior parte delle previsioni normative sembra, infatti, privilegiare un modello di diritto penale per “tipo d’autore”, volto a criminalizzare con estremo rigore il dissenso e i soggetti socialmente emarginati piuttosto che “fatti” descritti in modo preciso e concretamente lesivi di interessi costituzionalmente rilevanti. Inoltre, talune nuove fattispecie si sovrappongono a reati già presenti nell’ordinamento, creando così un inutile e disordinato affastellamento normativo: si pensi, ad esempio, alla previsione del nuovo reato di “occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, che si aggiungerebbe a norme che già puniscono comportamenti simili.
Cosa cambia
Suscita inoltre perplessità la generale costruzione di nuovi reati o l’introduzione di aggravanti per fatti commessi in occasioni di manifestazioni pubbliche o al fine di impedire che si realizzino “grandi opere”, cui si aggiunge la possibilità per il Questore di disporre il divieto di accesso alle aree di infrastrutture di trasporto anche a chi è solo denunciato o condannato con sentenza non definitiva. Calibrati sul “tipo d’autore” appaiono, altresì, i limiti alla concessione della sospensione condizionale della pena nei confronti di condannati per taluni tipi di reato commessi nelle aree dei trasporti pubblici. È poi davvero singolare (e irragionevole) l’aggravante comune, applicabile quindi ad ogni reato, se commesso «a bordo di treni o nelle aree interne delle stazioni ferroviarie o delle relative aree adiacenti» (una corruzione è più grave se commessa in treno?).
Il caso delle donne incinte e le rivolte
Ma sono soprattutto due le disposizioni che svelano l’impianto ideologico e l’ossessione securitaria del ddl. La prima è quella che rende facoltativo il rinvio della pena per donne incinte e madri di prole fino a un anno. Gli istituti a custodia attenuata per donne madri, presso i quali dovrebbe essere scontata la pena, sono peraltro assai pochi e, in virtù della consueta clausola di invarianza finanziaria, la conseguenza sarà che per le donne in attesa e i bambini si apriranno le porte del carcere. La seconda disposizione è rappresentata dalla previsione del nuovo reato di «rivolta in istituto penitenziario». La novità non sta tanto nell’incriminazione delle condotte violente, riconducibili a reati già presenti nel codice, quanto nell’esplicita incriminazione della resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti se realizzata da tre o più persone riunite.
Peraltro, dottrina e giurisprudenza escludono che la resistenza passiva, di per sé priva dei connotati della violenza o della minaccia, possa integrare il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Cosicché la criminalizzazione della disobbedienza pacifica rivolta esclusivamente ai detenuti – che, proprio in quanto già privati della libertà personale, non hanno altro modo di protestare – è indice di una preoccupante «ostilità difensivo-repressiva» (Paolo Borgna su Avvenire del 4 gennaio 2024) che contrasta con il modello liberale e garantista di diritto penale delineato dai principi costituzionali. Se poi si considera che il recente “decreto carceri” si è dimostrato inefficace nel risolvere il cronico sovraffollamento e il crescente numero di suicidi, sembra che l’unico obiettivo del prospettato nuovo reato sia quello di inasprire le misure repressive contro i disordini e le proteste dei detenuti.
Se è vero che la civiltà del diritto si può misurare scandagliando le regole del diritto e del processo penale, v’è da augurarsi che nel corso dell’iter legislativo si ponga rimedio ai numerosi dubbi di incostituzionalità cui vanno incontro le norme del ddl. Altrimenti non rimarrebbe che confidare, ancora una volta, in eventuali interventi correttivi della Corte costituzionale.
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