La sopraffazione della comunità
Il debito verso le persone che priviamo della libertà
Tra i tanti slogan del luogo comune giustizialista c’è quest’altro: che i detenuti devono saldare il proprio debito con la società. Nell’idea, dunque, che il rapporto tra la comunità dei rinchiusi e quella che li rinchiude sia di tipo risarcitorio, appunto con la società in posizione di credito. Ci si può indurre in questa barbara prospettiva solo trascurando il valore del bene che la società sottrae al detenuto, e cioè la libertà.
Una comunità civile che avesse senso liberale della vita e di se stessa si sentirebbe responsabile di una sopraffazione mostruosa nell’arrestare la libertà altrui: anche – direi soprattutto – nel caso in cui quell’espediente fosse davvero indispensabile piuttosto che gratuitamente afflittivo, qual è praticamente sempre. E nel ricorrervi, allora, quella comunità meno arretrata percepirebbe se stessa in posizione di debito, non di credito, nei confronti delle persone deprivate perlopiù senza necessità di quel bene supremo.
Questa diversa impostazione preparerebbe la società a un inevitabile progresso civile e normativo: e cioè la riconduzione a decenza delle condizioni di vita dei detenuti, sempre che possa considerarsi decente una vita non libera. Quella società diversa parlerebbe così: «Noi non siamo ancora capaci di pensare a un sistema diverso, e dunque ti imprigioniamo. Sentiamo tuttavia di renderci in tal modo responsabili di una incommensurabile ingiustizia, e la privazione cui ti sottoponiamo sarà risarcita con l’assicurazione che a sofferenza non si aggiungerà sofferenza. Per il tempo che sarà, vivrai dunque non libero: ma abiterai luoghi almeno gradevoli e sarai alimentato bene, sarai assistito nella malattia e se vorrai potrai studiare, lavorare, giocare e fare sport, e avere spazio e tempo per condividere la tua vita limitata con le persone a te care. Tutto questo è poco, è nulla a petto di quel che ti togliamo: e proprio per questo è il minimo che ti dobbiamo».
È chiaro che non sapremo mai fare un discorso simile. Perché siamo deboli. Perché non troviamo forza nel godimento della nostra libertà, ma nel potere di impedirla agli altri. E la libertà, questa cosa di cui spesso non sappiamo che fare, questa cosa di cui facciamo per noi un uso frequentemente così trascurato e infruttuoso, la sequestriamo ad altri perché ci è intollerabile l’idea che essa possa essere usata meglio di quel che sappiamo fare per noi stessi. La rinuncia alla libertà che imponiamo ai detenuti è il risarcimento per la nostra incapacità di fruirne degnamente.
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