Due fatti accomunano la condizione dei migranti a quella dei detenuti: che questi come quelli sono i deboli della società, e che gli uni e gli altri sono innocenti. Sono analogamente deboli perché identicamente sono sottoposti a una realtà che soverchia le loro ambizioni di vita: in un caso questa realtà è la fame, la guerra, la schiavitù; nell’altro caso è il potere dello Stato.

E nei due casi il risultato è il medesimo: la destituzione di rango nella scala umana, e appunto la riduzione delle persone a una condizione di debolezza, di impotenza nella soggezione a un potere irresistibile.
Ma anche più significativo è il secondo fatto accomunante: l’innocenza. Perché così i migranti come i detenuti soffrono la loro condizione di debolezza senza averne nessuna colpa.

Dice: ma come? D’accordo i migranti, che non si sono scelti la fame e la guerra da cui fuggono, ma che c’entrano i detenuti che invece nessun ha obbligato a delinquere? L’obiezione ha poco senso per due motivi. Innanzitutto perché l’eventuale colpa del delitto semmai spiega – non elimina – la violenza dello Stato; e in secondo luogo perché i detenuti non scontano la pena prevista dalla legge, cioè la privazione della libertà, ma quella diversa e illegale del sovraffollamento, della malattia, della sopraffazione, della disperazione affettiva, dell’inibitoria di qualsiasi diritto: e senza che questo regime di afflizione sia nemmeno remotamente giustificato dalla responsabilità per il fatto illecito che hanno commesso.

E a fronte di tutto questo, come per i migranti a fronte della guerra e della fame, c’è per i detenuti solo la loro innocenza. E infine ciò, a fare dei migranti e dei detenuti cose simili: “cose”, pour cause, nel sodalizio delle società magari diverse tra loro ma che ugualmente se ne disinteressano.