L’Iran e il suo programma nucleare sono ancora dossier bollenti per l’amministrazione Biden. Negli ultimi mesi, media statunitensi e israeliani hanno rilanciato l’ipotesi di un accordo tra Washington e Teheran. Ma sul punto, da Oltreoceano le bocche sembrano più che cucite. A Vienna, sede dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica e “capitale” delle trattative tra i due Paesi, il negoziato sembra essersi completamente arenato. Eppure, in questi giorni sono arrivati alcuni segnali che lasciano supporre che un dialogo tra i due nemici continui, anche se attraverso canali non sempre palesi, al punto che il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha dovuto chiarire pubblicamente che gli Stati Uniti non hanno cambiato in alcun modo il loro approccio nei confronti degli Ayatollah e del loro programma nucleare, quello che preoccupa tanto le potenze arabe quanto, se non soprattutto, Israele.
“Nulla nel nostro approccio generale all’Iran è cambiato. Stiamo perseguendo una strategia di deterrenza, di pressione e di diplomazia” ha detto Blinken, che ha già domandato alle autorità iraniane di “ridurre l’escalation per lasciare spazio alla diplomazia”. Il chiarimento di Blinken nasce da alcune mosse diplomatiche da parte Usa e da parte iraniana che hanno fatto pensare alla possibilità di una nuova finestra di dialogo tra i due governi. L’amministrazione Biden ha ottenuto che le autorità iraniane trasferissero cinque detenuti americani dal carcere agli arresti domiciliari, preludio al loro rilascio e successivo ritorno in patria. L’Iran, dal canto suo, ha ottenuto lo sblocco di sei miliardi di dollari congelati in Corea del Sud e che secondo i media dovrebbero essere trasferiti su un conto qatariota. Il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, ha affermato che l’impegno per il rilascio dei prigionieri non è collegato allo sblocco dei beni all’estero. Ma la versione del ministro non solo contrasta con i risultati delle inchieste della stampa Usa e delle dichiarazioni dei funzionari d’Oltreoceano, ma sembra anche difficile da sostenere per le tempistiche, che non possono apparire come pure coincidenze.
Nel frattempo, altri elementi inducono a credere che il dialogo tra Iran e Stati Uniti sia ripreso, pur tra mille difficoltà. Un’inchiesta del Wall Street Journal della scorsa settimana afferma che l’Iran ha rallentato sensibilmente le attività di accumulo di uranio arricchito: scelta che ha trovato già il placet dell’amministrazione americana. Successivamente era arrivato l’endorsement a un nuovo accordo da parte del Qatar, impegnato in questa difficile triangolazione tra i due Paesi. Mentre da parte di Israele, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha già espresso la sua contrarietà ad accordi che non assicurino il completo smantellamento del programma nucleare degli Ayatollah. Amirabdollahian, infine, ha ammesso di volere che tutte le parti tornino all’accordo sul nucleare del 2015, quello da cui Donald Trump decise di uscire contraddicendo platealmente la linea del predecessore, Barack Obama.
Le frasi del ministro iraniano – va detto – sono perfettamente in linea con la tradizionale narrazione della Repubblica islamica, che si è sempre dichiarata aderente a quel patto nonostante le prove contrarie addotte in particolare dai servizi israeliani. Tuttavia, il fatto che si torni a parlare di quell’accordo in questi giorni, proprio mentre gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza militare nel Golfo Persico, è un’indicazione da non sottovalutare. Sullo sfondo, un tema che per Biden e il suo governo ha un’importanza al momento anche superiore all’accordo sul nucleare iraniano, o che forse è considerato un passaggio indispensabile al suo raggiungimento: l’asse militare Iran e Russia. Secondo il Financial Times, Washington ha aumentato il pressing sugli iraniani per fermare la vendita di droni a Mosca. Il messaggio sarebbe arrivato all’Iran attraverso Oman e Qatar. E proprio mentre si discuteva sullo scambio dei prigionieri.