Il ‘diario’ della prigionia di Silvia Romano, dal mese nella giungla all’Islam: “Non sono stata violentata”

“Mi hanno chiuso in una stanza, dormivo su un pagliericcio. Mi davano da mangiare e non mi hanno mai trattata male, non sono stata incatenata o picchiata. Non sono stata violentata. Però ho chiesto un quaderno. Volevo tenere il tempo, capire quando era giorno e quando scendeva la notte. Volevo scrivere tutto. Ho chiesto anche di poter leggere, libri”. È questo parte del racconto che Silvia Romano, la cooperante 24enne liberata venerdì scorso dopo oltre 500 giorni di prigionia a seguito del suo rapimento, avvenuto il 20 novembre 2018 in Kenya, ha consegnato durante l’interrogatorio avvenuto domenica davanti al magistrato della Procura di Roma Sergio Colaiocco e al colonnello del Ros Marco Rosi.

Silvia è tornato sui 18 mesi vissuti con i suoi rapitori, il gruppo terrorista somalo al-Shabab. I momenti immediatamente successivi al rapimento sono i peggiori, con il “tremendo” viaggio nella giungla, le moto che si rompono subito costringendo Silvia e i rapitori a continuare a piedi “per un mese”. La ragazza racconta di come i terroristi le hanno tagliato i capelli “perché dovevamo passare in mezzo ai rovi“. “Ero terrorizzata. Faceva caldo, ma poi la notte c’ era freddo e dormivamo all’aperto. Mi hanno dato i vestiti e anche alcune coperte. Abbiamo dovuto attraversare un fiume. Il fango mi arrivava alla vita. Dopo ho saputo che siamo stati in cammino un mese“, spiega nel suo ‘diario’ della prigionia.

Arrivati nella prima casa i suoi carcerieri le portano anche un computer, non collegato alla rete internet, e un quaderno. La 24enne milanese quindi, come spiega il Corriere della Sera, chiede di poter pregare: “Mi hanno messo il Corano scritto in arabo e in italiano Ero sempre da sola e a un certo punto mi sono avvicinata a una realtà superiore. Pregavo sempre di più, passavo il tempo a studiare quei testi. Ho imparato anche un po’ di arabo”. È così che inizia la sua conversione all’islam, che culminerà poi nella shahada , la cerimonia per l’ adesione all’Islam, e con il cambio del suo nome in Aisha.

Quanto ai suoi carcerieri di al-Shabab, dal racconto di Silvia la conferma di non averne mai visto il volto. Quello che la volontaria considera “il capo” conosceva l’inglese, mentre a sorvegliarla era un gruppo di “sei uomini”, divisi in due gruppi da tre, senza alcuna presenza femminile. “Non li ho mai visti perché entravano con il volto coperto, però ormai li riconoscevo dalla voce anche se parlavano solo arabo”, conferma a Colaiocco Silvia, che racconta anche dei due periodi peggiore della prigionia. In due occasioni infatti la ragazza si sentirà male: “Avevo dolori forti e la febbre, hanno fatto venire il dottore e mi hanno curata. Mi hanno sempre dato da mangiare, se la sera eravamo in viaggio per i trasferimenti e faceva freddo mi davano le coperte”, spiega la volontaria.

Oltre 500 giorni dopo il rapimento arriverà quindi la liberazione, frutto di un estenuante e faticoso lavoro di intelligence dei servizi segreti italiani con la collaborazione dei colleghi turchi e somali. A comunicare a Silvia il rilascio è il carceriere che parla inglese. “Mi disse che l’operazione era finita, che mi liberavano. Dopo qualche giorno è venuto a prendermi. Mi ha fatto salire su un carretto trainato da un trattore. Sopra c’era un tavolo. Il viaggio è durato tre giorni e due notti. per dormire mi sono messa sotto il tavolo con le coperte”. La cooperante viene consegnata a due uomini somali a bordo di un’auto, dopo trenta chilometri l’arrivo in un compound militare e quindi l’arrivo all’ambasciata italiana, dove ad aspettarla c’è l’ambasciatore Alberto Vecchi.