In queste settimane si è detto e scritto molto di Bettino Craxi. E per lo più, ancora una volta, si è scritto e detto in modo fazioso e con spirito di tifoseria. E si è persa l’occasione di un anniversario importante per una valutazione distaccata e pacata non solo e non tanto sulla figura politica e su quella umana, ma soprattutto sulla dinamica che attanaglia il Paese dal 1992 ad oggi, praticamente la guerra dei trent’anni del qualunquismo, dell’approssimazione e della violenza giudicante e al tempo stesso autoassolvente di questo Paese.

Quel che manca è il senso della misura, quel che abbonda è l’individuazione corale da parte di un pensiero dominante e maggioritario che accomuna la maggior parte del sistema dell’informazione e del sentire pubblico e alla quale la politica, con la minuscola, si accoda in modo quasi totale. Si cominciò appunto con il tema della corruzione e delle tangenti nella politica. Tema vero e assolutamente presente. Per me erano gli anni del liceo e da appassionato di Politica giravo con la spilletta che ho ancora: tangenti no grazie. Ma una battaglia giusta per ripulire la Politica da abusi e corruttele divenne presto altro: la caccia all’untore, la demonizzazione, l’individuazione del nemico, le tv appostate fuori da palazzo di giustizia, i mostri in prima pagina.

Da lettore di Manzoni mi schierai (tra i pochi giovani di sinistra purtroppo) dall’altra parte. Tutto sapeva già di colonna infame. Ma l’errore, direi epistemologico, era pensare di spazzare via una classe dirigente e così migliorare il Paese. Non è stato. Anzi. Credo sia patrimonio acquisito l’abbassamento qualitativo uniforme che ne è derivato. Invece che combattere analiticamente, chirurgicamente, puntualmente i fenomeni corruttivi e le loro cause, si è scelto di condannare la politica tout court. E da quel giorno non si è più smesso: che si tratti di dipendenti pubblici, di enti definiti inutili, di spese considerate pazze, il metodo è far di tutta l’erba un fascio, buttare tutto nel calderone, semplificare, accusare, e pensare che l’azzeramento produca risultato.

Ma il risultato di ogni azzeramento è appunto lo zero, il vuoto, il nulla, il nichilismo di un tempo senza fiducia e quindi senza collettivo, senza l’altro, senza il noi, vittima di un io piccolo ma continuamente inquadrato nel proprio obiettivo a guardarsi senza guardare, a cercar conferma di esistere senza mai fare i conti con la componente di vizi che più si condannano negli altri meno si individuano in se stessi. È una totale mancanza di senso della misura, della proporzione, della serenità di vedere con quanto di positivo e di negativo sono sempre compresenti in ogni fenomeno. Tornare a quote più normali, come ci ha cantato un grande poeta.