Si può facilmente ironizzare, e in molti lo hanno fatto, su quanto sta accadendo nella galassia dei Cinquestelle.
Per esempio, si potrebbe dire che i fatti danno una spiegazione del perché l’esaltazione della democrazia diretta sia stato un caposaldo identitario dei programmi pentastellati. Data l’incapacità dimostrata nel gestire i meccanismi legati alla democrazia rappresentativa, a cominciare dalla forma organizzativa del movimento, non resta veramente che ripiegare sulla democrazia diretta. Almeno (all’apparenza) è più facile.

Scherzi a parte, quello che sta succedendo in questi giorni, a cominciare dalla contrapposizione tra Grillo e Conte, non dovrebbe preoccupare solo i militanti pentastellati. E nemmeno preoccupare solo i partiti loro potenziali alleati (come in effetti sta accadendo). Le baruffe in corso dovrebbero preoccupare tutti, perché al di là del merito, sono il sintomo della grave malattia della nostra democrazia. Innanzitutto perché mettono ancora una volta in luce il tradimento dell’art. 49 della Costituzione, che vorrebbe tutelare i cittadini che vogliano associarsi per concorrere a determinare la politica nazionale. I cittadini, non le élites, i capi-bastone o i predestinati. Per questo la previsione del metodo democratico interno dovrebbe essere, oggi, la regola aurea per qualunque formazione che voglia partecipare alle elezioni e aspiri al governo, nazionale o locale, del paese. E non è certo il gioco linguistico del “movimento-non partito” che può consentire di aggirare quei principi.

Va aggiunto che la democrazia è cosa diversa dal plebiscito o dall’acclamazione. Se il momento democratico, elettronico o reale che sia, si risolve esclusivamente nella possibilità di dire sì o no a proposte preconfezionate, questa non è, appunto, democrazia. Nella quale, invece, dev’essere possibile la contendibilità delle cariche, la dialettica competitiva, le garanzie formali della correttezza delle procedure, la trasparenza e, soprattutto, la predeterminzione delle regole del gioco, che non possono essere continuamente cambiate in corsa. Se questi requisiti mancano, siamo all’abuso del concetto, alla mistificazione opportunistica delle parole e dei valori. Lo svuotamento dei principi è contagioso. Trasmette l’idea, sbagliata, che basti evocare la democrazia per essere democratici, che basti esprimere un voto perché tutto sia legittimo. Applicato su scala generale, e non alla vita interna di un partito, ci troveremmo nella stessa situazione di quelle democrazie apparenti che usano il rito elettorale per coprire derive autoritarie, di cui è piena la storia recente e l’attualità in giro per il mondo.

Il rischio-contagio di questi virus, innanzitutto culturali, non può essere sottovalutato. Per questo deve interessare tutti. E la prova che le vicende dei Cinquestelle siano il segno di questi tempi di degenerazione è dimostrato dal fatto che, in realtà, la contesa non è sul “partito”, ma sulle leadership del medesimo. La personalizzazione dei partiti è un fenomeno ormai universale e, a mio parere, anche positivo. Piuttosto che le burocrazie e le oligarchie correntizie senza volto del passato, in cui nessuno ci metteva la faccia, ma le facce cambiavano (più o meno per cooptazione) senza che i militanti potessero effettivamente condizionare i processi, ben venga una situazione nella quale si sa chi è che si assume la responsabilità di guidare il partito o le istituzioni. Questo però non può avvenire senza regole, in forza di meccanismi di selezione ancor più oscuri di prima. Perché sennò, anziché leader, avremo unti del Signore, uomini della provvidenza, imbonitori di folle, conigli tirati fuori dal cilindro, che chiedono l’acclamazione e il plebiscito. Inoltre la regolazione dei processi di personalizzazione non può limitarsi alla vita interna dei partiti, perché la personalizzazione si trasferisce anche sulle istituzioni.

Anche questo è un fenomeno ormai irreversibile della politica contemporanea (v. per tutti Poguntke, Webb, The Presidentialization of Politics, Oxford University Press, 2005). Ma se così è, appare ormai improcrastinabile adeguare la disciplina istituzionale a queste tendenze, in modo che, alla personalizzazione, corrisponda una effettiva responsabilità. Quello che sta accadendo in questi giorni, dunque, non è solo la rappresentazione di un fallimento delle illusioni sgrammaticate di chi ha voluto improvvisare una palingenesi politica che non ha prodotto nulla di palingenetico. E anche l’ennesima spia di un sistema politico sbandato, in cui l’avventurismo e l’improvvisazione rischiano di prendere sempre più il posto della democrazia e della responsabilità.