Saggistica e narrativa
“Il dio che danza”, il racconto rivolto agli esclusi del nostro tempo

Non è un caso che Il dio che danza (ed. Nottetempo, pp. 340, 18 euro) sia stato scritto nell’anno della pandemia, è un libro che cerca un punto d’appoggio nel fondo dell’inquietudine che stiamo vivendo e da lì prova a darsi slancio. A partire dalla rilettura di Ernesto de Martino, Paolo Pecere, filosofo, scrittore e viaggiatore, si fa domande sulla danza rituale come risposta viva alla crisi della condizione di integrazione dell’individuo nel tessuto sociale e storico che Ernesto de Martino chiama la presenza.
Da qualche tempo, da prima della pandemia, la voce di de Martino è tornata a risuonare, i suoi libri sono stati ripubblicati: La fine del mondo è uscito nel 2019 (da Einaudi), Feltrinelli ha ripubblicato quest’anno Morte e pianto rituale, e/o sempre quest’anno Oltre Eboli. Tre saggi, e la nuova influenza della sua opera è destinata a crescere ancora. Se il tema della crisi della presenza, dello spaesamento – dello sbrindellarsi di un tessuto comune, malcompensato dalle micro-comunità social – era perfettamente attuale anche in anni recenti, con la pandemia la crisi ha toccato un livello di gravità inimmaginabile. La deprivazione del mondo sociale è stata esperienza comune, molti si sono sentiti ricacciati in una condizione talmente privata da risultare onirica, ectoplasmatica; ciascuno ha cercato dalla condizione dell’isolamento vie di fuga o risposte impossibili da trovare da soli.
Attorno, la pressione della morte, a volte privata persino dalle forme abituali del lutto. Il viaggio è stato escluso dalle esperienze possibili. Attraversando un’esperienza come questa non sembra strano pensare alla società, al mondo comune, come a qualcosa di non più garantito, che ha bisogno di una sua rifondazione per ritrovare stabilità come succedeva nel mondo magico. Dalla condizione attuale nasce Il dio che danza. Paolo Pecere scrive in prima persona: è una di quelle voci saggistiche, narrative, investigative, che in brevissimo tempo abbiamo riconosciuto congeniali, adatte a un tempo in cui per capire le cose è necessario riconnettere gli ambiti disciplinari separati dagli specialismi attraverso l’unico strumento in grado di farlo, quello narrativo.
In un tempo in cui il viaggio ci è precluso, Pecere ci propone un libro di viaggi. Tornando in Puglia, inseguendo la storia della taranta e della sua trasformazione, viaggiando nel tempo sulla scia degli spostamenti di Dioniso, dio che porta sconvolgimento, disordine rivolgendosi agli esclusi dall’ordine sociale; portandoci in India, in Malabar, regione settentrionale del Kerala, ad assistere al theyyam, che «narra spesso di antenati che si ribellano al sistema della caste, vengono uccisi o violentati per aver commesso questa infrazione, e tornano in vita come dei per impartire una lezione ai propri persecutori», in Pakistan, nel Mali, ad Haiti, ma anche raccontando i rave.
Cosa cerca Pecere in quest’indagine, documentata come un’ampia monografia scientifica e coinvolgente come una narrazione? Cerca, e in buona misura trova, nella danza rituale, uno strumento degli oppressi, degli esclusi e delle escluse dall’ordine sociale, poveri, fuoricasta, fuorigenere per dare al disagio la possibilità di un’espressione; la danza diventa una “follia giusta” che permette l’elaborazione dell’ingiustizia, l’esplorazione delle identità che la vita diurna cela, la moltiplicazione delle possibilità, la presa di coscienza storica e sociale della propria condizione. Ma si tratta di una forma di coscienza capace di farsi spinta alla trasformazione sociale? Pecere se lo domanda e intanto ci mostra come queste storie di danza e possessione siano continuamente provocate a svuotarsi, ad appiattirsi, a diventare spettacolo per turisti, colore locale.
A lettura finita resta l’impressione che parlando del dio che danza e delle sue incarnazioni, Pecere stia parlando anche di noi (noi in lungo e in largo per il mondo) e del nostro disagio attuale che non trova sbocco, e che avrebbe bisogno per riconquistare la presenza, per restituire stabilità a un mondo comune, di seguire in una forma nuova il dio che danza.
© Riproduzione riservata