L'intervista all'ex segretario del ministero degli Esteri
Il diplomatico Massolo: “Bene la presa di Kursk ma ora l’Ucraina si fermi, c’è un limite di profondità per evitare l’accerchiamento”
Atlantista ma realista. Si può riassumere così la posizione di Giampiero Massolo, diplomatico e funzionario italiano, che sulla controffensiva dell’Ucraina avverte: il merito è stato quello di mettere in risalto le falle della Difesa e di rafforzarsi in vista di un possibile negoziato, ma non si può spingere il piede sull’acceleratore all’impazzata. «Kiev non può fare molto di più. Ora la sfida è quella di consolidare le conquiste». L’ex segretario generale del ministero degli Affari esteri parla di «un limite di profondità oltre il quale gli ucraini non possono spingersi, altrimenti le loro linee di approvvigionamento verrebbero tagliate e si troverebbero accerchiati». Ora la priorità dell’Occidente è non allentare il sostegno all’Ucraina, per far sì che possa presentarsi al tavolo delle trattative «quanto più forte e resistente possibile».
La controffensiva dell’Ucraina ha colto di sorpresa la Russia. Ora Putin, spiazzato, è all’angolo?
«Sicuramente l’Ucraina ha centrato l’obiettivo vero, che era quello di far sentire ai russi che c’è una guerra, andando così contro la narrativa ufficiale del regime. E poi conquistare quanto più possibile, in modo da ottenere due risultati: creare una sorta di zona cuscinetto oltre confine per attenuare gli attacchi da quelle zone e porre le basi affinché – quando un giorno ci sarà da negoziare – si potrà vantare una conquista territoriale. Quest’ultimo aspetto dipende da ciò che accadrà sul campo: un conto è entrare in Russia e avanzare, un altro è riuscire a tenere quei territori. Questo ce lo dirà il campo».
Cosa dobbiamo aspettarci dallo zar? Una risposta severa e una nuova mobilitazione?
«Alle mosse corrispondono delle contromosse, ma non vedo all’orizzonte l’interesse di Putin a colpi di teatro esaltanti in una situazione del genere. Intanto Mosca ha lanciato un intenso attacco di missili e droni per sfiancare la popolazione e interrompere le forniture energetiche in vista dell’inverno. Ma le dimensioni dell’attacco fanno pensare anche a una retaliation per l’avanzata a Kursk».
Sul campo di battaglia cosa cambia? Mosca, spostando le truppe, potrebbe alleggerire la pressione sul Donbass?
«Non mi sembra che l’offensiva in Donbass abbia subìto delle modifiche rilevanti, è cambiato poco. Il campo ci sta dicendo che se l’obiettivo era quello di indurre Putin a spostare le truppe dalla regione, questo non si sta verificando. L’offensiva lì continua. Non credo che l’obiettivo ucraino fosse quello di attenuare la pressione nel Donbass».
Si aprono diversi scenari per Kiev, alle prese con un dilemma strategico: come può passare all’incasso senza rischiare di perdere tutto?
«Kiev ha un argomento forte: dire all’Occidente che se smettesse di essere aiutato allora dovrebbe soccombere, creando una sorta di buco nero in Europa di cui Putin – prima o poi – approfitterebbe a danno della sicurezza complessiva per l’Ue. Se dovesse esserci un esito di segno favorevole alla Russia, sicuramente non sarebbero solo gli ucraini a rimetterci ma l’intero assetto in Europa: saremmo tutti meno sicuri».
Le difese e gli apparati russi sono stati bucati. Quella russa si è dimostrata solo propaganda muscolare. A questo punto conviene continuare l’avanzata nella speranza di far emergere altre falle nella sicurezza russa?
«Non si può andare troppo oltre in profondità. Avendo a disposizione forze non illimitate, si rischia la sovraestensione: quando le tue forze a un certo punto rompono i contatti con la madrepatria. C’è un limite di profondità oltre il quale gli ucraini non possono spingersi, altrimenti le loro linee di approvvigionamento verrebbero tagliate e si troverebbero accerchiati. Ora la sfida è quella di consolidare le conquiste. Ha fatto il punto psicologicamente, ha dimostrato che c’è una vulnerabilità della Russia nel suo territorio, ha dimostrato ai russi che c’è una guerra in atto, ha contraddetto la propaganda del regime, potenzialmente può giocarsi il negoziato. Ma non può fare molto di più. In questo momento bisogna tenere il punto».
Sedersi al tavolo delle trattative per la pace richiede realismo. Davvero l’Occidente deve rassegnarsi all’idea che quel circa 20% di territorio ucraino occupato dalle truppe russe non tornerà indietro?
«C’è una regola d’ingaggio: niente confronto diretto tra la Nato e la Russia. Nessuno può pensare che la regola di base possa essere violata. Su questo bisogna essere chiari: non c’è modo di far tornare i russi a casa senza contrastarli militarmente sul terreno da parte della Nato, e questo non è all’ordine del giorno. Ciò che serve invece è aiutare gli ucraini il più possibile perché, quando un giorno si arriverà a un negoziato, Kiev deve presentarsi al tavolo quanto più forte e resistente possibile. Altrimenti vince Putin e noi saremmo meno sicuri. Ma pensare che i russi possano essere mandati a casa senza uno scontro diretto è illusorio. Bisogna prendere atto di questa realtà, supportare gli ucraini, portarli al maggiore grado di forza. A quel punto il terreno ci dirà quando e come un assetto senza combattimenti potrebbe essere realtà».
Ma al tempo stesso bisogna assolutamente evitare di dare a Putin l’impressione di averla vinta. Mica facile…
«Certamente non è facile, però credo che Putin non pensi di aver già vinto. Prova ne sia che non intende negoziare, il che significa che ritiene di poter ancora avere da guadagnare. Anche qui, sarebbe illusorio sostenere che Putin pensi ancora di poter sovvertire l’ordine in Ucraina: l’obiettivo iniziale, nel febbraio del 2022, era quello di instaurare un governo fantoccio. Adesso lo zar pensa di poter condizionare l’Ucraina, impedendole il suo percorso di avvicinamento alle istituzioni europee e atlantiche. Per lui è intollerabile avere ai suoi confini uno Stato con orientamento democratico-liberale, collegato con l’Ue e con l’Alleanza. Perciò vuole esercitare quanta più pressione per condizionare gli orientamenti politici dell’Ucraina».
Putin aveva scommesso sulla fatica dell’Occidente. L’asse atlantista continuerà a reggere o l’attuale fiatone lascia prevedere un allentamento del sostegno a Kiev?
«Indubbiamente c’è una tentazione verso l’interruzione delle attività belliche perché comportano una spesa notevolissima per i bilanci militari occidentali. Anche il Congresso americano non è favorevole a un aiuto senza termine, a una sorta di pozzo senza fondo. Bisognerà vedere anche l’esito delle elezioni in America: mi aspetto che, indipendentemente dal successo dei repubblicani o dei democratici, si entrerà nella via della necessità di arrivare a un esito. Ovviamente se vincesse Donald Trump questo sarebbe più brutale, più immediato: la prima cosa che probabilmente farebbe sarebbe quella di minacciare gli ucraini di interrompere gli aiuti. Ma allo stesso tempo direbbe a Putin che verrebbero portate ancora avanti le sanzioni se non dovesse dimostrarsi disponibile a negoziare con Kiev. Lì si aprirebbe una partita basata sulla forza. Comunque pure se vincesse Kamala Harris non ci sarebbe disponibilità a sostenere una guerra senza fine».
È preoccupato dalle recenti uscite del ministro Crosetto? Serpeggia il timore che il governo Meloni possa indietreggiare sul supporto all’Ucraina: rischio concreto o infondato?
«Non credo. Il ministro Crosetto si è espresso in termini analoghi a quelli di molti altri esponenti di governo europei e non solo, anche americani. Ha fotografato l’impossibilità di andare avanti all’infinito, l’esigenza di trovare una sistemazione che consenta un esito soddisfacente in Ucraina. Questo è l’obiettivo anche delle diplomazie. Trovare, sul terreno, la situazione più favorevole possibile per Kiev».
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