Sono uno di quelli che arrivati a un certo punto, non riesce più a non prendere parte fisicamente agli accadimenti, soprattutto se penso che in gioco vi sia la libertà e la democrazia. Ma prima ancora, l’umanità. Da quando ho due figli, non riesco a non pensare che è a loro che debbo lasciare qualcosa, anche fosse solo il vano tentativo di provare a fermare l’orrore, e non solo ad osservarlo mentre dispiega tutto il suo satanico fascino. Siamo circondati, invasi direi, da “combattenti per la libertà” da remoto, quelli che fisicamente possono stare dove vogliono e come vogliono, mentre giudicano e sentenziano, suggeriscono e fomentano. Ma è anche questa la logica della guerra. L’empatia verso chi la subisce, viene presto aggredita dalle pulsioni peggiori, che la soffocano di ideologia, la annichiliscono con la tifoseria, e le conseguenze possono divenire irreparabili. Fosse per alcuni noti ed autorevoli editorialisti, che alla mattina vanno al lavoro in doppiopetto e non in mimetica, saremmo già dovuti passare alla terza guerra mondiale nucleare.

L’odio verso i “disfattisti”, quei pacifisti cinici che in realtà “collaborano con il nemico”, è tipico del periodo. Ma i più guerrafondai sono, storicamente, i più codardi poi sul campo di battaglia. Tra i più avveduti, e non è un caso, ci sono molti militari di professione. Quelli che dicono “calma, calma, non bisogna allargare il conflitto, bisogna trovare una soluzione negoziale”. L’antichissimo e il modernissimo, in questa guerra, si mescolano perfettamente: i carriarmati che affondano nel fango, e le bombe termobariche che “svuotano i polmoni dall’aria”. I social e il sangue e il cervello spiaccicato sulla strada da un missile che colpisce chi tenta di fuggire. Le maratone televisive che seguono, passo passo, il morire di sete di una quindicenne chiusa in un rifugio. Mc’Donald e Amazon e i vecchi mig-29. E l’arena, con gli spettatori assiepati che dopo un po’ si abituano allo spettacolo. Come in un Colosseo 3.0, pollice alzato o pollice verso.

Per capire questa guerra, la guerra di questo tempo, ci servono più Matrix e Blade Runner che i documentari dell’Istituto Luce. Per non smarrire la bussola in questo delirio, ci serve più la storia di Davide e Golia della Bibbia, che i trattati sull’imperialismo. Disertare dunque: conservare gelosamente lo stare dalla parte delle vittime di questa strage, le donne, gli uomini e i bambini ucraini, e coltivare il desiderio di continuare a combattere contro l’Imperatore di turno, che oggi si chiama Putin. L’Imperatore, proietta direttamente e senza mediazioni, la visione di uno stato di polizia, omofobo, mafioso, dispotico ed autoritario, non solo all’interno dei suoi confini, ma anche fuori. Disertare, e dunque prendere parte, altro che equidistanza. Sto per tornare in mare, a bordo della Mare Jonio, per l’undicesima missione di ricerca e soccorso nel mediterraneo centrale, per aiutare i profughi che fuggono dalla Libia, a scappare. Mi accusano di “favorire l’immigrazione clandestina” per questo. Certo, per me non esiste nessun bambino, donna o uomo che possa essere definito “clandestino”. Per me i profughi che scappano dalle guerre come in Ucraina e dai lager come in Libia, vanno aiutati a fuggire, anche andandogli incontro. Sono un disertore, lo rivendico. Ieri sera, con tanti altri di Mediterranea, ho assistito a una delle tante riunioni che chiamo, da un po’ di tempo a questa parte, “cospirazioni del bene”. Tanti attiviste e attivisti si stanno preparando a una missione di terra, che andrà incontro ai profughi ucraini. Disertare la guerra, e sostenere la resistenza di un popolo all’invasione della sua terra, significa anche aiutare i suoi figli e le sue figlie, a sopravvivere, ad avere un futuro nonostante la guerra e oltre la guerra. Questa forma di resistenza è speciale: non fa morti, fa solo vivi.

Vent’anni fa esatti ho fatto lo scudo umano con altri attiviste e attivisti dentro uno dei due ospedali di Ramallah, durante l’operazione militare israeliana Miztva Homat Hagen, “scudo difensivo”, che portò a cavallo della Pasqua di quell’anno all’assedio di 6 città della Cisgiordania, tra cui quella dove risiedeva Yasser Arafat. L’operazione “scudo difensivo” fu una delle più grandi azioni militari dalla Guerra dei 6 giorni del 1967. Era il periodo della seconda Intifada, e noi eravamo giunti a Gerusalemme con una carovana di pace, Action for Peace, con Raffaella Bolini e tanti altri che anche adesso continuano a lottare contro la guerra. Decidemmo a un certo punto di trasformarci in corpo di interposizione, entrando direttamente nei luoghi del conflitto. Entrammo a gruppi eludendo i check point, con dei piccoli van guidati da palestinesi. A me andò dritta, fui il primo a “testare” il sistema. Ad altri dopo, andò peggio: qualche sparo, un blindato che si mette di mezzo in strada e altro. Per tutti, tanta paura. Il governo israeliano di allora aveva deciso, con l’uso di carri armati, elicotteri da guerra e truppe di terra, di “smilitarizzare” i gruppi armati palestinesi che avevano portato a termine una serie di attentati terroristici in città israeliane, e il “casus belli” fu l’attentato suicida di Netanya, al Park Hotel, dove morirono 30 persone innocenti e altre 140 rimasero gravemente ferite. Anche bambini. Rimasi venti giorni chiuso dentro quell’ospedale, c’erano Luisa Morgantini e tanti e tante, e quando arrivavano i tank di Israele, uscivamo con i passaporti in mano, gridando “europei, europei!”.

Non abbiamo subito bombardamenti, sentivamo di notte e di giorno i colpi tutto attorno a noi, a cento metri, ma non credo che l’esercito sarebbe arrivato a colpire con i missili e con i pazienti dentro. Di sicuro non con dentro noi. Piuttosto, come avevano fatto con l’altro ospedale cittadino, se non ci fossimo stati lo avrebbero distrutto entrandoci dentro, con la scusa della ricerca di possibili elementi nascosti lì dentro, dei gruppi armati palestinesi. Ma in questi casi, l’obiettivo di terrorizzare la popolazione civile, viene prima. Renderlo inservibile, far diventare impossibile per le persone andarci, far sentire l’ansia ad una città intera che non ha più luoghi di riparo e dove farsi salvare, farsi curare. Con quella brigata di attivisti contro la guerra, dovemmo a un certo punto, “proteggere” con i nostri corpi, lo scavo di una fossa comune, proprio nel terreno accanto all’ospedale, perché tra le tante tecniche di un esercito di occupazione per far impazzire e piegare una città, ho imparato che c’è anche quella di non permettere il rifornimento di gas refrigerante per l’obitorio. Seppellimmo, passandoci di mano in mano i corpi dei morti, 24 persone, avvolte in un lenzuolo bianco, adagiandole una a fianco dell’altra, su quel fondo di terra. Ogni corpo era disteso su una tavola di legno, di quelle che si usano in edilizia. Le grida e i pianti delle madri, delle sorelle, inginocchiate, mi vengono ancora a cercare ogni tanto. Dormivamo dentro l’ospedale, a terra o in barelle che per forza sarebbero rimaste quasi tutte vuote. Attorno, la guerra, ci appariva dal frastuono delle bombe, dei colpi di artiglieria.

Ci avevano spiegato di stare attenti, a destra e a sinistra dell’entrata, da qualche punto difronte, sparavano i cecchini. Colpi precisi, secchi, calibro 22. Non avevo mai visto un foro provocato da un calibro 22. Una mattina una signora, rimasta imprigionata dal giorno di inizio dell’assedio in quell’ospedale dove era ricoverata, volle a tutti i costi uscire. Voleva tornare a casa dai figli, che diceva “erano soli”. La guardavamo mentre camminava rasente al muro, veloce. Io non ho sentito il rumore dello sparo. Ho visto lei che si accasciava, di colpo. Con un architetto di Venezia, Cristiano, anche lui con noi, corremmo verso di lei. Avevamo fatto a tempo a prendere in mano un camice di un medico, per sventolarlo come bandiera bianca. Ci morì tra le braccia, quella signora, stretta nel suo fazzoletto azzurro. Il foro di entrata era piccolo. Sul collo. Quello di uscita, all’altezza dello stomaco, aveva inondato di sangue tutto il vestito, e le nostre mani. Dopo la fine di tutto, a Tel Aviv, prima che mi consegnassero il decreto di espulsione da Israele, raccontai quello che avevo vissuto a un cronista della Rai, un inviato. Era Marc Innaro.