Il naufragio tattico
Il disastro di Letta, con Bonelli-Fratoianni per difendere l’agenda Draghi: ma per i Dem è Calenda il nuovo Giuda

Ricostruendo a cose fatte gli avvenimenti con un minimo di oggettività risulta che il bombardamento mediatico posto in essere dal Pd nei confronti di Calenda a proposito del suo “tradimento” nei confronti della coalizione di centrosinistra, non solo è destituito di fondamento ma va addirittura rovesciato. Certamente per il suo comportamento politico ondeggiante nei giorni passati a Calenda vanno fatti numerosi rilievi ma paradossalmente di segno del tutto opposto a quelli avanzati dal Pd, considerando la natura del suo movimento liberal-democratico centrista europeista e atlantica.
Allora Calenda si era già preso un azzardo non da poco realizzando una intesa col Pd e quindi venendo a collocarsi nel centrosinistra. Già di fronte a quella scelta una parte del Movimento aveva espresso il suo dissenso. Ma la situazione è diventata chiaramente insostenibile quando a quella prima intesa, il giorno dopo, Letta ne ha fatta seguire un’altra, che sarebbe dovuta essere aggiuntiva alla prima, da lui realizzata con due personalità come Fratoianni e Bonelli e due partiti – la sinistra e i Verdi – che rappresentano l’estremismo radicale. Non bisogna dimenticare che la differenziazione esisteva fin dalle origini: Fratoianni si era contrapposto all’altra formazione di estrema sinistra, cioè quella denominata Articolo 1 composta da Bersani, D’Alema, e Speranza proprio per non aver condiviso la partecipazione al governo Draghi e a tutte le scelte successive, sostegno all’Ucraina in primo luogo.
Va detto che appena il 24 febbraio di quest’anno Putin ha scatenato l’attacco all’Ucraina, Enrico Letta (come sul lato opposto Giorgia Meloni) ha reagito in modo assai incisivo sostenendo il governo Draghi nella solidarietà al Paese aggredito. Questa assunzione di responsabilità da parte di Enrico Letta poteva costituire una conferma per la convergenza politico elettorale fatta da Calenda nella prima fase. Invece al leader di Azione può essere imputato di non aver capito immediatamente l’insostenibilità della intesa realizzata da Enrico Letta con Frantoianni e Bonelli che introduceva estremisti radicali nell’accordo precedentemente fatto fra i riformisti sostenitori del governo Draghi.
Le cose però non si fermano qui e riguardano non solo Calenda ma lo stesso Letta. Infatti tutta la questione non può essere trattata in modo semplicistico come si è cercato di fare. Qui bisogna chiarire quello che il Pd reputa essere il nodo politico di fondo. Se fin dall’inizio della partita elettorale Enrico Letta ha pensato che il problema fondamentale è costituito dal pericolo fascista impersonato da Giorgia Meloni, subito o accettato da Berlusconi e da Salvini, allora ci sarebbe voluto ben altro che due mezze intese pasticciate, quella con Calenda e l’altra con Fratoianni-Bonelli. Enrico Letta e il Pd avrebbero dovuto recuperare dall’armamentario storico del Pci l’impostazione che a suo tempo caratterizzò la famosa svolta di Salerno del 1944 che schierò nella lotta al nazifascismo praticamente tutti gli altri partiti e movimenti, dai monarchici di Badoglio, ai liberali, ai democristiani, ai repubblicani, ai socialisti e ai comunisti.
Mutatis mutandis nel nostro caso il Pd avrebbe dovuto comporre uno schieramento di unità antifascista dai Grillini di Conte, ad Azione, +Europa, ItaliaViva, a Articolo1 fino alla sinistra di Fratoianni e ai Verdi. Questa è la scelta obbligata se si crede che il fascismo è alle porte. Se invece Enrico Letta e larga parte del Pd reputano di dover portare avanti con il centrodestra una difficile sfida da condurre in Italia e in Europa in punta di fioretto e con qualche colpo di spada su una serie di questioni assai importanti ma di merito (che tipo di riforma istituzionale, quale Europa, se federale o confederale, quale politica dell’immigrazione, quale politica fiscale, quale livello di indebitamento, quale politica energetica e ambientale) ecco che il Pd avrebbe dovuto tenersi ben stretto il Polo riformista aggregato con Azione e +Europa caso mai cercando di coinvolgere in esso anche Renzi e fermarsi lì.
Invece a un certo punto Enrico Letta ha proposto una seconda intesa, sommando al polo riformista quello con i massimalisti per la difesa costituzionale: un incredibile pasticcio che si sarebbe risolto in un cartello dei No che non avrebbe avuto alcuna credibilità a livello interno ma specialmente a livello internazionale. Perché allora Enrico Letta ha operato questa svolta sul terreno delle alleanze andando poi incontro a un autentico disastro? Le spiegazioni possono essere due: quella più semplice e banale è che avrebbero prevalso calcoli organizzativi fondati sulle tecniche di votazione nei collegi uninominali. La seconda spiegazione più complessa è che una parte del Pd ha ritenuto di non essere in grado di reggere una vigorosa alleanza riformista con Calenda e gli altri senza una copertura da sinistra che non potendo più riguardare Conte allora doveva coinvolgere estremisti dichiarati come Fratoianni e Bonelli.
Da questa esigenza di copertura è derivato un eccesso di spregiudicatezza tattica risoltosi in un disastro: oggi il Pd affronta le elezioni senza una alleanza con l’area centrista é invece avvinto come l’edera con una variopinta compagnia di estremisti di tutti i tipi. Questo inizio di partita è stato segnato da una forte tendenza all’autogoal e finora su questo terreno la sinistra ha dato il meglio di se stessa. Nel passato, però, anche il centrodestra su questo terreno non ha scherzato, per cui vale il motto del poeta: “del doman non c’è’ certezza”. Solo il 26 settembre sapremo come è andata a finire.
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