Sembra esserci uno iato fortissimo tra l’apertura alla partecipazione contenuta nell’idea delle Agorà del Partito democratico, che in questi giorni stanno muovendo i primi passi, e le pratiche reali. Per regolamento i militanti possono promuovere un’Agorà (in sostanza un dibattito e una deliberazione a tesi) solo se coinvolgono anche non militanti. I primi risultati sono molto lontani da un’esperienza deliberativa, cioè da un dibattito informato che conduca a una decisione ben ponderata, per quanto di area. Prevalgono le radicalizzazioni, del resto la democrazia partecipativa è cosa ben diversa dalla democrazia deliberativa.

Ma anche solo l’esperimento partecipativo dovrebbe svilupparsi all’interno e non come un modesto surrogato di un’autentica cultura del confronto, portata avanti quotidianamente dai gruppi dirigenti. Anche perchè il vero confronto, quello che opera in società, non è quello tra simili ma tra dissimili. La politica, si sa, è l’arte del confronto che ha come fine la mediazione. Il Partito democratico – il nome non l’ho scelto io – mostra un gruppo dirigente poco aperto al confronto e non inclusivo, salvo che nella composizione delle slabbratissime liste elettorali. Deve trattarsi di un virus che infetta presto e, allo stato, è senza vaccino. Manfredi, uomo di ricerca e di scienza, dichiara al Mattino: «Molti mi vedono come un ricercatore, un professore ma sono assolutamente una persona normale». Scongiurato il rischio di un candidato trinariciuto, lo scienziato, uomo del confronto che costituisce la sostanza del metodo scientifico, si adegua subito alle pratiche e agli andazzi della politica al tempo della sua crisi.

I consulenti di immagine gli consigliano di non sembrare un professore, cioè se stesso e ciò che lo ha portato alla candidatura attraverso i suoi successi accademici e civili. Poi afferma che vorrà essere sostenuto da poche e significative liste, ma ne accetta 13 di nessun significato perchè gli spiegano che così si deve fare. Quindi diserta i confronti con i candidati secondo il più ritrito adagio della politica per cui il favorito non dà vantaggi a chi insegue – neanche si trattasse del faccia a faccia tra Kennedy e Nixon – salvo poi presentarsi sempre al Mattino, come nulla fosse, per un “forum” con tre giornalisti. Credevamo che Manfredi fosse “salito in politica” per cambiarla, non per adeguarsi subito a quello che c’è, e che intendesse portare in politica il metodo del confronto e del dialogo anche confrontarsi e dialogare non sembra profittevole. Non c’è un fine che differisca del mezzo, in democrazia.

Del resto che fa il resto del gruppo dirigente dem? Centinaia di iscritti e molti ex dirigenti sostengono Antonio Bassolino o fuoriescono per andare in altri partiti e non si dice una parola, una volta si diceva “per non disturbare il manovratore”. Il segretario regionale Leo Annunziata non si sa di cosa si occupi e il confronto viene meno, per così dire, all’origine. Le esternazioni del giovane segretario metropolitano Marco Sarracino  sono tutte uguali a se stesse, motivazionali e un pizzico (auto)celebrative. Il presidente della Regione Vincenzo De Luca è da tempo protagonista di conferenze stampa senza domande, figuriamoci il contraddittorio. La vera questione è che tipo di politiche può derivare da questo modo d’essere della politica? Che il confronto migliori la democrazia non è solo un articolo di fede, ma un solido riscontro delle esperienze democratiche.