La convinzione che esista un “dovere della resa”, propugnata da questo giornale e condivisa non occasionalmente in ambienti di ispirazione opposta, deve fare i conti con un pericolo tanto palese quanto trascurato. E cioè l’idea che quel dovere dipenda anche, se non soprattutto, da una specie di colpa di chi subisce l’aggressione: l’idea che egli debba arrendersi, insomma, perché non ha pienamente ragione, e forse anche perché l’aggressore non ha pienamente torto.

Negare che questo pericolo esista mi pare a dir poco disonesto, e mi pare che i sostenitori del dovere della resa dovrebbero farsi carico del dovere di scongiurarlo: e il primo modo è riconoscere che c’è. Pur senza giungere all’indugio sulle doti morali dell’aggredito, che va di conserva con le divagazioni sui guerrafondai da divano, è ben diffusa (altro che minoritaria) l’impostazione per cui il diritto di non essere bombardati non è proprio incondizionato, e trova un limite se il curriculum dell’aggredito ha qualche magagna. Che so? Una villa in Versilia, o qualche svastica negli scantinati, o un discutibile occhieggiare a Ovest, che dopotutto è un verminaio di massacratori anche più detestabile, oltretutto compiutamente capitalista e dunque anche meno titolato a mettere becco.

Ripetere incessantemente che l’aggressore è russo e l’aggredito è ucraino – formula adoperata per chiarire che il dovere della resa è invocato senza rinnegare che i ruoli sono comunque quelli – non basta a risolvere il problema di cui sto dicendo, e anzi serve ad accantonarlo. E il problema è il pregiudizio per cui gli ucraini e l’Ucraina, presieduta da quel vanesio, un po’ se la siano cercata: e dopotutto i russi li avevano ben avvertiti. Siamo sicuri che la proclamazione del dovere della resa non sia alimentata mai, proprio mai, da questo pregiudizio? Siamo sicuri che mai, proprio mai, ne tragga alimento?