Storie di malagiustizia
Il dramma di Davide e Tullio, in carcere per poche settimane per un residuo di pena

Davide ha 22 anni ed è alla sua unica vicenda giudiziaria. Ha sbagliato a partecipare alla rapina, seppure con un ruolo di supporto ai veri esecutori. Ha risarcito il danno e affrontato il processo, ricorrendo in Appello al concordato: tre anni di reclusione. Questa condanna l’ha scontata quasi interamente agli arresti domiciliari, senza violare alcun obbligo. Ma quando mancavano circa quattro mesi alla fine della condanna, Davide è stato portato in carcere. Perché? Perché la sentenza era diventata definitiva. Insomma, pura questione di burocrazia giudiziaria, nulla di più.
Tullio, invece, ha più di 70 anni, una condanna per contrabbando di sigarette e un cuore che funziona con il supporto di due bypass. Da alcuni mesi è in carcere, a Poggioreale, perché la condanna è divenuta definitiva ma a causa di disfunzioni burocratiche ha ricevuto le cure e i farmaci salvavita di cui ha bisogno solo dopo che il suo difensore ha chiesto l’intervento del garante regionale.
Le storie di Tullio e Davide arrivano da Napoli a sollevare una riflessione sulla norma che prevede di sbattere in galera chiunque abbia un residuo di pena da scontare una volta che la condanna è divenuta definitiva, lasciando poi ai giudici della Sorveglianza la rivalutazione del singolo caso. Ma visto che il Tribunale di Sorveglianza non funziona con ritmi e tempi ragionevoli, perché è ormai storia nota che il settore della Sorveglianza sia tra quelli più in affanno nell’ambito della giustizia e a Napoli più che mai a causa di vuoti negli organici di personale amministrativo e di magistratura che di anno in anno si allargano come voragine senza che vi sia stato nel recente passato un intervento realmente risolutivo, l’applicazione di questa norma genera storture giudiziarie. Il fenomeno della cosiddetta porta girevole, quella che quando conclude il suo giro lascia sulla soglia del carcere decine, centinaia, migliaia di individui che vanno ad affollare le celle pur avendo da scontare un residuo di pena minimo. Ieri il Riformista ha raccontato la storia di un bambino di sette mesi finito in carcere, in Emilia Romagna, perché sua madre deve scontare un residuo di pena di venti giorni. Da Napoli arriva ora la storia di Davide, finito in cella per un residuo di pena di pochi mesi.
«Il mio assistito – spiega l’avvocato Paolo Cerruti – non ha ritenuto di proporre un “inammissibile” ricorso per Cassazione diversamente dai coimputati che, pur condannati con gravi precedenti penali e con pene ancor più gravi, pendendo il ricorso per settembre dinanzi alla settima sezione, sono attualmente in regime di arresti domiciliari». Davide, come i suoi coimputati, in Appello aveva fatto ricorso al concordato. «Tale leale comportamento si è riverberato negativamente nei confronti del mio assistito incensurato». Il giudice a cui è stata assegnata la procedura ha concesso al detenuto la liberazione anticipata, ma «per un ingiustificabile disguido delle cancellerie» non sono state trasmesse tutte le richieste. «A tutt’oggi dal 21 maggio nulla è stato fatto».
Sicché Davide è ancora in cella. «L’intelligente scelta di politica criminale adottata dal gup e finalizzata a non criminalizzare un incensurato è stata vanificata proprio da quell’ufficio preposto a verificare la personalità del detenuto – commenta l’avocato Cerruti – È paradossale – conclude – che un soggetto come Davide, che finirebbe la pena a metà settembre, debba ancora essere detenuto in carcere».
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