“Io sono Mauro Guerretta e il 28 settembre 2020, in quello che sembra essere un classico lunedì mattina, sono stato arrestato”. Con questo incipit inizia Cella 304, il diario autobiografico di un imprenditore che a seguito di un reato finanziario è costretto ad affrontare nei propri sessant’anni la cella angusta ma densamente popolata delle patrie galere.
E come un uomo, un padre di famiglia, affronti ogni nuovo giorno tra paure e nuove abitudini è anticipato dalla prefazione della figlia dello stesso, Federica perché il carcere è una pena, senza differenti metri di valore, anche per chi oltre le sbarre non può abbracciare il proprio compagno, marito, papà.
È Federica Guerretta infatti la giovane donna che decide che sia fatta giustizia anche con la pubblicazione di un libro “per dare voce all’uomo che mi ha dato la vita , all’uomo che mi ha dato un’educazione, all’uomo che mi ha permesso di essere la persona che sono oggi, all’uomo che ha perso di essere un uomo libero”.
Dunque, come sia la vita per un uomo di sessant’anni che ama la compagnia dei propri cari ed il buon cibo, ma convive con patologie e paure. D’altronde chi non sarebbe spaventato, o comunque non sarebbe gravemente disorientato, se alla mattina prendi il caffè con tua moglie e la sera ti ritrovi a condividere la sporcizia e l’aria rarefatta di una cella con sconosciuti, con persone che prima di allora spacciavano, uccidevano o commettevano qualsiasi altro genere di violenze.
Federica anticipa già la questione nella prefazione, allontanando qualsiasi retorica ma andando al cuore della questione: “Cella 304 non vuole essere un libro di denuncia o di vendetta verso qualcuno o qualcosa, vuole semplicemente raccontare le difficoltà di un detenuto”.
Fondamentalmente è la costatazione di fatto dell’esperienza umana dello stesso Guerretta all’interno delle strutture carcerarie che conduce il lettore a riflettere sul valore della libertà. Processato a febbraio del 2020, l’imprenditore ancora libero dice di affrontare ogni giorno con la serenità di chi ha trascorso ancora un altro giorno fuori. Poi l’arresto ad ottobre, prelevato e condotto al comando di San Vito di Cadora “per una comunicazione urgente”. Da quel momento l’accettazione dignitosa della pena: 6 anni e 6 mesi. “Me lo aspettavo – racconta – il processo in Cassazione è stato il 13 febbraio 2020 poi a causa della pandemia non si è saputo più nulla ma doveva succedere”.
Il libro si impernia intorno all’attesa che finisca una quotidianità lentissima, prima nel carcere di Belluno e poi in quello di Udine: la sveglia avviene con la battuta dei manganelli contro le celle da parte delle guardie carcerarie, “gli assistenti”, al fine di estirpare sul nascere piani di evasione. Nell’ora d’aria con Ferruccio si parla della legge Cartabia a proposito di pene alternative al carcere. Si legge il giornale oppure si pensa ad una maniera di evasione, almeno con la testa, attraverso la cucina. In carcere, così come fuori nella società dei diritti e dei doveri, tutto ha un prezzo. Se non hai possibilità di affidarti ad uno “spesino”, mi dispiace ma mangi “dal carrello”.
Il carcere, per chi come Mauro Guerretta soffre di patologie varie, può essere quel luogo dove se avverti un malore tra le 12 e le 14 oppure tra le 21 e le 8 del mattino non puoi essere condotto in ospedale perché manca il responsabile che autorizzi il trasferimento. Al nostro Mauro ad esempio è accaduto. Dice: “Il carcere non è preparato per gestire un’emergenza di un detenuto di sessant’anni con tante malattie”.
Ed è anche quel luogo nel quale, se ti trasferiscono da Belluno ad Udine, a nessuno dei tuoi familiari sarà detto alcun che prima di 5 giorni. Al nostro Mauro, ad esempio, è accaduto anche questo: nella giornata di colloqui alla moglie Fiorella nessuno a Belluno ha saputo dirle dove il marito fosse, o comunque se fosse stato trasferito. Ma ancora, il carcere può essere anche quel luogo di condivisione di una cella con un detenuto paranoico alle prese con una terapia di metadone.
A cosa serva allora il carcere, verso quale percorso di riabilitazione e reinserimento conduca, ed in definitiva cosa possa insegnarci vivere al suo interno. Tutto si condensa in quella che l’imprenditore Mauro Guerretta definisce come morale: “NIENTE”. Ma ciò non vuole demolire il concetto di causa effetto: sbaglio, dunque devo pagare per i miei errori. Tuttavia, perché non ricorrere a pene alternative come gli arresti domiciliari. Sconcerta, eppure è la realtà, ma nelle nostre carceri convivono insieme detenuti dalla diversa natura, senza alcuna distinzione di reato. Sicuramente tutto ha un inizia. Ma poi, almeno per Mauro, la speranza è che poi comunque tutto finisca.