Il dramma di Roberto Franzè, aveva gridato aiuto ma nessuno lo ha ascoltato e si è tolto la vita

L’8 dicembre Roberto Franzè si è tolto la vita nel carcere di Ascoli Piceno. La modalità, in questi casi, è “standard”, se così si può dire: i compagni di cella escono per la passeggiata in cortile, uno dice che non si sente bene e rimane in cella, e quando gli altri ritornano aprono la porticina del bagno, e lo trovano impiccato alle sbarre della finestrella. Anche la corda è quasi sempre uguale a sé stessa: tre striscioline strappate dal ruvido lenzuolo del carcere, intrecciate, che così diventano resistentissime. In alcuni casi, con detenuti a basso indice di pericolosità, gli vengono lasciati i lacci delle scarpe, o dei pantaloni della tuta: sono più corti, ma in effetti, rispetto alla treccia, scivolano meglio.

I suicidi in carcere, ogni anno, sono diverse decine. Quasi sempre sono persone con reati di poco conto. I criminali veri, infatti, non temono il carcere. I disadattati invece sì. A chi ritiene che lo Stato dovrebbe fare di più per contrastare questi suicidi, di solito viene risposto che non è colpa del carcere, questa è gente fragile che si sarebbe suicidata comunque, magari un po’ più in là, in un altro momento, ma era solo questione di tempo. Roberto Franzè era calabrese di origine, e da alcuni anni si era trasferito in provincia di Brescia. Il mondo fuori doveva correre molto in fretta se nessuno aveva raccolto le sue parole di aiuto. Eppure aveva scritto innumerevoli lettere alle autorità competenti e ai magistrati inquirenti. I suoi avvocati non erano stati ascoltati nonostante le denunce, le istanze di arresti domiciliari per le condizioni di salute che lo vedevano ridotto a 50 kg, di vomitare ogni giorno e delle patologie psichiche di cui era affetto e che erano state dettagliatamente documentate. Nelle sue lettere scriveva come un mantra “non ce la faccio più, non posso continuare così”.

Sarebbe potuto andare in una comunità disposta ad ospitarlo per curarsi ma la burocrazia è un tritacarne che non vede e non sente: macina ininterrottamente nonostante l’urgenza delle persone in carne ed ossa che gli capitano sotto. La sua fragilità fisica e psichica era evidente, ma Roberto Franzè ce l’aveva messa tutta per affrontare il carcere, la custodia cautelare, i processi, le accuse per reati che non gli consentivano di difendersi come avrebbe voluto e come in uno Stato di Diritto sarebbe logico immaginare. Da persona libera. Prima la custodia cautelare. Prima il tritacarne, poi se sopravvivi la difesa, la moglie, la famiglia. La sua invalidità accertata era riuscita a mettere in guardia la magistratura di Sorveglianza ma di fronte ad accuse per mafia, l’ostativo si trasforma in un dogma invalicabile. Franzè era stato condannato a tre anni con rito abbreviato per una tentata estorsione da 100 mila euro, aggravata dal metodo mafioso, ai danni di una coppia di imprenditori. Inoltre era stato anche condannato a 100 euro di multa e ad un risarcimento di 10mila euro a testa per le parti offese. Non entriamo nel merito delle accuse e delle istanze della difesa. Eppure se quelle lettere scritte da una cella di massima sicurezza fossero arrivate e avessero ottenuto l’incredibile beneficio degli arresti domiciliari o di una detenzione presso una comunità oggi avremmo un colpevole di tentata estorsione vivo invece di un presunto innocente morto.

In Italia al 31 dicembre 2018 i detenuti in custodia cautelare erano 19.565, pari al 32,8% del totale della popolazione carceraria per una percentuale di detenuti ancora in attesa di una sentenza definitiva. L’Italia si colloca al quinto posto dei Paesi dell’Unione Europea per tasso di detenuti presunti innocenti. Per chi finisce nella macchina giudiziaria la custodia cautelare nella maggior parte dei casi va a colpire i soggetti socialmente più deboli Per gli stranieri la situazione si alza al 38% (tra le donne straniere addirittura al 40,3%). Per i soli detenuti italiani essa è pari al 30,2%. Dal Rapporto annuale del garante nazionale per i detenuti e delle persone private della libertà personale:
“Le persone in custodia cautelare in carcere continuano ad essere in calo, ma l’Italia resta tra i Paesi in Europa che maggiormente ricorrono al carcere prima della sentenza definitiva”. Dalla mezzanotte di domenica sera Rita Bernardini è in sciopero della fame per richiamare le istituzioni italiane alle loro responsabilità verso i propri cittadini che colpevoli o innocenti che siano hanno diritto a un processo giusto, alle garanzie di difesa a non dover scegliere di morire pur di essere visibili. Perché il paradosso è proprio questo: solo da morto sei un nome e un cognome.