Nell’articolo uscito il 27 aprile sul blog letterario minima et moralia scrive Christian Raimo: «La fecondità simbolica della differenza sessuale rimane ancora una promessa». Certo, ma per chi? Sicuramente per quel sesso vincente che lacerando l’organismo unico da cui è nato ha riservato solo a se stesso la parte vincente, la consegna di figlio unico inseparato e inseparabile in quanto parte di un organismo considerato il suo necessario complemento. Le costruzioni di genere del maschile e del femminile che si sono via via succedute nel corso dei secoli, con una fissità sempre maggiore tanto da sembrare dati naturali, sono in realtà, a guardare bene, soltanto delle “funzioni” rispetto a quell’organismo unico che è il corpo materno: non organismi viventi, non corpi, né passioni, né carne costrette al medesimo tempo a reclamare, in condizione di servitù, la loro parte mutilata.

Alla base di quella preistoria che sta tra inconscio e coscienza, tra l’immaginazione del figlio nella sua infantile dipendenza e l’onnipotenza femminile, si colloca quel dualismo sessuale che in forme diverse attraversa la storia privata e pubblica, portando dentro il sogno di una appartenenza intima a un altro essere, ma anche la certezza della propria esistenza e il desiderio della sua integrità. Del possesso della donna l’uomo si è impadronito prima ancora di sapere che parte aveva nel processo generativo, lo ha fatto stuprando, violentando, pensando di aver visto nascere da quel corpo materno un altro se stesso, inerme e poi armato contro quella carne che gli ha assicurato vita, cura, riconoscimento, poi famiglia, continuità della specie. La centralità della figura della donna madre è stata esaltata e vilipesa dal patriarcato: legame con la materia vivente di tutti gli umani, portatrice dei segni della vita e della morte, della coscienza e della radice biologica degli umani. È stata il grande feticcio, per non dire il fondamento stesso del patriarcato: esaltata per un verso e dall’altro sottoposta a un rigido controllo del dominio maschile.

Prima del principio materno legato alla terra, al corpo e ai suoi limiti c’è quello che Bachofen chiama “principio paterno spirituale”, che non solo si è già di fatto impadronito del corpo materno ma ha preteso di essere l’unico erede. Comincia così il possesso del corpo femminile, la pretesa maschile di controllarlo e di tenere insieme parti tra loro inscindibili (appunto come corpo, natura, cultura). Il dualismo sessuale e la complementarietà delle sue parti è la maledizione di un dominio che ha confuso il desiderio, la violenza, la libertà e le necessità. Nella rigidità fisica essenzialista con cui sono stati definiti i caratteri sessuali del maschio e della femmina si perde la possibilità di ogni possibile cambiamento e disgregazione, si perde soprattutto quel carattere di naturalità che si è voluto dare loro.

La Ragione di Otto Weininger, che lo porterà al suicidio giovanissimo nel 1903, è aver visto agli inizi del secolo crollare quell’edificio platonico che sembrava avere fermato per sempre la storia al mistero del dualismo sessuale. Sotto la razionalità e la modernità dei secoli, non era la prima volta che si scopriva l’azione sotterranea e devastante delle viscere della storia che hanno continuato a dirigerla, a spingerla, suo malgrado e che ci riporta ogni volta “a quelle acque insondate delle origini”, a cui va ricondotto l’enigma della relazione controversa e duratura tra i sessi.