Il libro dell'ex pm
Il falso pentito Cancemi, Ilda Boccassini racconta il suo flop su Berlusconi
Nel 1994, nell’intervallo tra il 26 gennaio, giorno in cui Silvio Berlusconi annunciò la sua entrata in politica (“L’Italia è il Paese che amo..”) e il 28 marzo con la sua vittoria elettorale, in Sicilia un pubblico ministero coltivava uno “spunto investigativo” per verificare se il leader di Forza Italia avesse commissionato, insieme a Totò Riina, l’assassinio del giudice Giovanni Falcone. La pm si chiamava Boccassini, la vicenda è raccontata nel dodicesimo capitolo del suo libro La stanza numero 30 (Feltrinelli editore), e sono pagine tra le più interessanti, senza nulla togliere al botto editoriale con il lancio della storia d’amore tra Ilda e Giovanni.
Dopo la strage di Capaci, la pm si era trasferita da Milano a Caltanissetta, non senza aver prima insultato in un’aula affollatissima e infuocata del palazzo di giustizia un bel po’ di toghe, accusandole, non senza molte ragioni, di aver lasciato solo ed esposto alla vendetta dei corleonesi il magistrato siciliano. La procura di Caltanissetta aveva il compito, a norma di legge, di svolgere le indagini sugli assassinii di Falcone, di Francesca Morvillo e degli uomini della scorta. Anche se Boccassini scoprirà, una volta arrivata sul territorio, che, in modo un po’ inusuale, della strage di Capaci si stava occupando già anche il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Non è un mistero il fatto che tutte le indagini sulle stragi mafiose sono state costruite sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, i famosi “pentiti”. I quali mettevano in campo il massimo della loro astuzia. Prima di tutto cercando di capire che cosa i pubblici ministeri che li interrogavano volevano sentirsi dire, e poi cogliendo l’occasione per mettere in campo vendette contro le cosche avversarie.
Fu così che la dottoressa Boccassini, che lavorò per tre anni a Caltanissetta giorno e notte chiusa nel bunker del tribunale e anche in un altro bunker alberghiero creato apposta per lei e altri magistrati, entrò in contatto, tra gli altri, anche con il “pentito” Salvatore Cancemi. Uno dei più lesti a saltare il fosso. Arrestato nel luglio del 1993, con l’anno nuovo era già lì davanti ai magistrati a dire la sua. Con lo schema classico del mafioso, si parla a rate. Si getta la rete per vedere l’effetto che fa. Se il pm abbocca, si comincia ad arricchire la polpetta, soprattutto se è avvelenata. Un altro trucco del collaboratore mafioso è quello di parlare spesso “de relato”, cioè riportando parole di altri, spesso orecchiate sbirciando dal buco della serratura. Non si sa se Cancemi fosse o meno informato del fatto che gli investigatori siciliani, pur senza notizie, avessero già messo le mani avanti aprendo inchieste, oltre che (ovviamente) sugli esecutori della strage, anche sui “mandanti occulti”, prima ancora che qualcuno ne accennasse. Se il collaboratore non lo sapeva lo intuiva, anche perché, è o no il sogno di ogni pm quello di mettere le mani su un famoso politico, un banchiere, un imprenditore? Ca cettu, direbbero i siciliani.
La prima esca messa sul tavolo da Cancemi è piuttosto scarna: un altro mafioso, Raffaele Ganci, mentre tornavano in auto da Capaci vero Palermo, dopo aver partecipato a una riunione preparatoria dell’attentato contro Falcone, gli avrebbe parlato di “persone importanti”, estranee a Cosa Nostra, con cui era in contatto Totò Riina nei giorni di allestimento della bomba. Niente nomi, per il momento. La pm Ilda Boccassini arriva in caserma a incontrare il “pentito” Cancemi il 18 febbraio 1994. Non aspetta il procuratore capo (cioè il suo capo) Giovanni Tinebra, che era in ritardo, e si butta a capofitto nell’interrogatorio. «La prima domanda che rivolsi al collaboratore riguardava proprio quel dialogo con Ganci sui rapporti tra Riina e le ‘persone importanti’ non affiliate a Cosa Nostra». Guarda caso. Quindi lo incalza per sapere i nomi. Lui tergiversa: «Ribadisco di non aver saputo da Ganci né in quell’occasione né successivamente i nominativi dei personaggi importanti con cui Riina era sceso a patti». Aggiunge però che, anche se non ha notizie precise, è però convinto che l’accordo ci sia stato e che si sia concretizzato. Cioè Cancemi si traveste un po’ da Pasolini: non ho le prove ma “io so”.
Poi accade un piccolo miracolo. Arriva l’avvocato difensore e la memoria del “pentito” si risveglia d’ improvviso. Non so i nomi delle persone con cui si incontrava Riina, “ma ho il dovere di riferire queste circostanze…”. Dopo aver trovato il modo di fare il nome di Vittorio Mangano (che Riina detestava) e anche di Marcello Dell’Utri, dice che «… una cosa è certa e corrisponde al ‘cento per cento’ a verità: Riina era in contatto con Dell’Utri e quindi con Silvio Berlusconi». Come lo sa? Perché ogni anno arrivavano a Totò Riina 200 milioni di lire, in rate di 40-50 per volta, in contanti di banconote usate, tenute con un elastico e dentro sacchetti di plastica, “dal Nord”. E chi le portava a Riina? Un certo Pierino di Napoli. Fino a questo punto, Silvio Berlusconi viene descritto più che altro come un imprenditore vittima di un’estorsione, poiché in Sicilia ha diverse “antenne” televisive, come dice il “pentito”. Infatti l’ipotesi di una sorta di pagamento di pizzo viene buttata lì dal magistrato. Ma subito dopo ecco la domanda insidiosa messa lì su un piatto d’argento: «Lei ricorda se nel maggio 1992, cioè dopo che lei apprese da Salvatore Biondino che il giudice Falcone doveva essere ucciso e prima della morte di quest’ultimo, ha avuto modo di assistere a una consegna di una rata dei 200 milioni da parte di Pierino Di Napoli a Raffaele Ganci?». «Sì, certamente», la scontata risposta. Altro che “spunto investigativo” aveva ottenuto la pm quando finalmente era arrivato all’interrogatorio il procuratore capo Tinebra! Riina che veniva pagato per uccidere Falcone! Il collaboratore di giustizia ormai va a ruota libera.
Ha capito di aver suscitato l’interesse (quanto interesse, dimostreranno tutti gli avvenimenti degli anni successivi, dal Lodo Mondadori fino a Ruby) della dottoressa Boccassini e non si tiene più. «Sono stati presi due piccioni con una fava», «Ecco perché io dico che gli interessi di Riina sono coincisi con gli interessi di quelle persone importanti cui ha fatto riferimento Raffaele Ganci». Dunque ricapitolando: un certo Pierino portava soldi a Riina, tramite Ganci, provenienti dal “Nord”. Chi c’è al nord? Silvio Berlusconi, ovvio. Perché gli dava questi soldi? Per far uccidere Falcone. Per quale motivo? Non si sa, interessi coincidenti. «In buona sostanza –conclude il libro- Cancemi aveva dichiarato, verbalizzato e sottoscritto che fino al luglio 1993 un intermediario di Cosa Nostra si era adoperato per far transitare verso il capo della sanguinaria mafia corleonese somme di denaro provenienti da Silvio Berlusconi…». E, bocca della verità, il collaboratore «escludeva che quei passaggi di denaro costituissero una ‘normale’ estorsione…» Ecco perché, conclude la pm, «non solo era necessario indagare a fondo, ma anche farlo subito, senza perdere un minuto».
Bisognerà ben trovare quel tal Pierino, prima di tutto. Anche perché –ma questa è una nostra malizia- le urne sono vicine e il presidente di Forza Italia è già in campagna elettorale. Ed ecco l’imprevisto. Le uova nel paniere le romperà un caro amico di Ilda Boccassini, quel Giuseppe D’Avanzo che in seguito ossessionerà Berlusconi con le famose 10 domande, il quale con il collega Attilio Bolzoni farà un grosso scoop, rivelando tutto su Repubblica del 21 marzo, ormai a ridosso delle elezioni. Ottenendo come primo risultato la lesta fuga del famoso Pierino. I verbali dell’interrogatorio di Cancemi erano nelle mani di tre procure, Caltanissetta, Palermo, Firenze. Piccolo giallo nel giallo: chi è l’uomo che “in una tiepida notte romana” tira giù dal letto D’Avanzo e “con le lacrime agli occhi” gli mostra le carte e gli consente di prendere appunti? Boccassini lo sa perché il giornalista glielo ha detto molti anni dopo e prima di morire per un improvviso infarto. Lo sa, ma non lo dice. Un po’ alla siciliana. Senza offesa per nessuno, ovviamente. L’inchiesta è finita lì, il giorno dello scoop. E della vittoria elettorale di Berlusconi del 27-28 marzo 1994. Volata via, come si conviene alle bolle di sapone.
(1.Continua)
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