Solo un mese fa sarebbe stato diverso il discorso che il senatore Bernie Sanders ha tenuto martedì alla convention di Chicago. Non avrebbe, con la stessa enfasi, evocato la liberazione degli ostaggi nel reclamare una soluzione del conflitto a Gaza. E non avrebbe ricevuto gli stessi applausi. Naturalmente nessuno sarebbe capace di misurare quanto, nell’esplosione di quella claque democratica, fosse dedicato a salutare la finale richiesta di “cessate il fuoco” o invece l’immediatamente previo riferimento alla sorte degli ostaggi e all’obbligo di riportarli a casa. Ma non appare casuale che, nell’enumerare le condizioni di soluzione del conflitto, quel senatore solitamente impegnato in requisitorie tutte anti-israeliane abbia deciso di anteporre a ogni altra condizione – appunto – la liberazione degli inermi che da più di 300 giorni sono sottoposti a supplizio nei tunnel di Gaza.

La realtà è che anche presso le viscere democratiche più ostili all’iniziativa bellica israeliana, le cui agitazioni Joe Biden ha faticato parecchio a contenere, fa capolino da alcune settimane un conato di consapevolezza. E cioè che gli ostaggi sono stati dimenticati dalle platee internazionali che, nei mesi, han fatto mostra di ricordarne l’esistenza solo in occasione del periodico ritrovamento di qualche loro povero resto. Aveva il senso di quella resipiscenza il discorso di Kamala Harris di fine luglio, un discorso sulla guerra di Gaza frettolosamente rimpolpato con lista degli ostaggi da recuperare dopo che Donald Trump le aveva rimproverato di fregarsene. E aveva quel medesimo senso affannosamente riparatorio la foresta di microfoni e telecamere che, lo stesso giorno del mese scorso, faceva da spettacolare guarnigione al vecchio presidente seduto a un tavolo con i familiari dei rapiti.

Le accuse senza sosta rivolte a Netanyahu, preteso responsabile di non tenere alla sorte degli ostaggi e di preferirne l’abbandono pur di perseverare nel proprio autismo guerrafondaio, se pure fossero fondate non renderebbero ragione di un’evidenza plateale. E cioè che indugiare sulla presunta inefficienza di chi combatte per liberare gli ostaggi ha un segno morale bieco quando accantona il crimine di chi li ha rapiti. Tanto più quando, per mesi, l’immagine degli ostaggi è impunitamente accartocciata nelle città d’Europa e d’America in cui i cortei per la Palestina libera dal fiume al mare ne fanno repulisti. Sta cominciando, forse, a delinearsi il profilo storto di chi ripete “riportateli a casa ora”, rivolto a Israele, senza aver mai detto – rivolto ai macellai del 7 ottobre – “liberateli ora”.