Qualche giorno fa, prima dell’ovazione che Giorgia Meloni ha ricevuto a Rimini, sulla prima pagina dell’Humanité si leggeva: “Les fascistes aux portes du pouvoir”. Una esagerazione? Un assaggio di cosa accadrà, dopo il possibile successo della destra, si può forse cogliere nelle reazioni al post di un giovane candidato del Pd. La sua colpa è di aver celebrato alcuni anni fa l’Ottobre sovietico. Scendono in campo, come è naturale, i giornali della destra, per i quali è possibile condividere il culto del lettone di Putin. Non è tollerabile, invece, “un capolista dem che inneggia alla rivoluzione d’Ottobre” (Il Giornale).

Partiti e leader, non solo del Carroccio, possono avere rapporti politico-finanziari con ambigui filosofi e frequentare centri di influenza di Mosca, che si offrono di anticipare i rubli per i loro viaggi ad Oriente. E’ però un crimine intellettuale evocare i dieci giorni che sconvolsero il mondo (“Tra i capilista del Pd anche il tifoso dell’Urss”, La Verità). Niente di strano che la destra, nei giornali di riferimento, denunci “Intenzioni sinistre: Sarracino celebra sul web la rivoluzione bolscevica con tanto di foto di Lenin” (Il Tempo). E’ invece alquanto fuori luogo l’intervento di una Giorgia Meloni indignata (“ora arriva anche chi inneggia all’Unione Sovietica”). Anche in questo caso conferma l’estraneità della sua cultura politica alle vicende dell’Italia repubblicana. Almeno cinque tra Presidenti dell’Assemblea Costituente e Presidenti della Camera, e due Presidenti della Repubblica, hanno in passato condiviso (e quando ancora la Russia era il grande nemico ideologico-militare dell’Occidente) i contenuti ideali del post del candidato di Napoli.

Oltre alle più elevate cariche istituzionali, un Presidente del Consiglio (ma chissà se anche al giovanissimo Craxi qualche riconoscimento al mito del ’17 sarà scappato) e svariati Vicepresidenti del Consiglio (da Nenni a De Martino, persino l’americano Veltroni nel 1977 ha cantato la bellezza dell’Ottobre al Cinema Adriano) hanno ossequiato la presa del Palazzo d’Inverno. Si può comprendere la ritrosia di Giorgia Meloni a riconciliarsi con le libertà moderne, lei che invoca l’italiano nuovo (“generazioni di nuovi italiani sani e determinati”), che supera le “devianze” (come obesità e anoressia), e con i dispositivi dello Stato prospetta la mutazione antropologica del carattere nazionale. E’ un fatto però che le istituzioni democratiche in Europa rinascono quando due giovani soldati dell’Armata Rossa alzano la bandiera con la falce, il martello e la stella sul tetto del Palazzo del Reichstag.

Chi nello stemma ancora ostenta la fiamma (simbolo inaugurato nel 1947 da quanti, appena pochi anni prima, stavano dall’altra parte nell’epopea di Stalingrado) si accinge ora a conquistare il governo in una Repubblica nata dalla Resistenza antifascista. Questo passaggio, del tutto compatibile con le procedure della democrazia che si limita a registrare il consenso effettivo, provoca scossoni sul terreno delle egemonie culturali. In previsione dell’evento che strattona il paradigma fondativo dell’antifascismo, Meloni già può intascare i frutti del revisionismo storiografico del “Corriere”. In un editoriale il quotidiano, che ospita diversi “parvenu del fascismo liberale” (per usare un’espressione di Giuliano Ferrara), reinterpreta il ‘900 italiano come sedimentazione di “culture antidemocratiche”.

Osservando le azioni dei movimenti collettivi con “lo sguardo lungo e profondo della storia”, Galli della Loggia rileva che Pci e fascismo sono movimenti politici che odiano ogni forma di regime liberale. E quindi sono tradizioni del tutto assimilabili, “un tutto unico”, perché “usano entrambi la violenza”. Secondo la penna di punta del “Corriere”, il Pci e il fascio littorio hanno un comune codice genetico, quello che attesta che nella ideologia della violenza Mussolini non è troppo diverso da Gramsci. E le squadracce che ammazzano e impongono con il terrore un regime totalitario non usavano metodi difformi dai partigiani che nel 1943 “sono confidenti nell’uso della forza”. Nella lettura di Galli della Loggia, dopo la violenza “sporadicamente praticata” nel 1945, nel dopoguerra i comunisti coltivano il credo mistico della violenza come ideologia, che nella sua funzione salvifica viene ufficialmente “teorizzata ed evocata”. Insomma, i seguaci di Togliatti guardano alle armi come ad una mitologia rigeneratrice che dal partito viene “a lungo ammirata e politicamente condivisa”.

Giustamente Nadia Urbinati e un giurista di formazione liberale, Andrea Pertici, ricordano alla firma del “Corriere” l’elemento essenziale di ogni riflessione sulle dinamiche storico-istituzionali italiane: il fascismo è stato un regime totalitario, non una semplice cultura politica. E i comunisti hanno offerto un contributo fondamentale nella progettazione, nella realizzazione e nel consolidamento della democrazia costituzionale. E’ in questo preciso quadro storico che Cesare Pavese ha potuto annotare: “è possibile che uno s’accosti al comunismo per amore di libertà? A noialtri è successo”. Nella sua equiparazione tra rossi e neri, che condividono una ideologia populista (“sono stati entrambi l’espressione di un tratto di fondo della storia italiana novecentesca che è stato il populismo”) e violenta, Galli della Loggia cancella i processi reali nella speranza che “l’Italia deve ancora compiere un’opera di autocomprensione di sé in relazione a questo suo passato così complesso”. Queste lezioni di spavaldo revisionismo possono certamente essere raccolte come l’ideologia dell’epoca nuova.

Anche sulla “Stampa” c’è chi saluta nell’ascesa di Meloni “la vittoria del femminismo” e rimane estasiato da “una donna che giganteggia sulla linea del fronte”. Però il voto di settembre potrebbe anche confutare le categorie del revisionismo storico, confermando che i conti per la comprensione della loro modernità politica sono già stati fatti dagli italiani il 25 aprile e il 2 giugno. Non è comunque il fascismo del 1922 che oggi è alle porte, con le squadracce in armi e le uccisioni dei nemici politici. E’ una variante di destra radicale che vuole, con il voto e non con una marcia violenta, rovesciare la forma di governo parlamentare e la forma di Stato unitaria. Nella sua comunicazione, la madre, patriota e aspirante dietologa di Stato camuffa il volto di classe della flat tax e la distruzione del Sud che procede con l’autonomia differenziata.

Senza una vera cultura politica, conquista il consenso sui social esaltando le eroiche Forze dell’Ordine che bloccano un “gruppo di immigrati” o i Vigili del Fuoco intervenuti in soccorso di una bimba di 12 mesi in aereo, inneggiando al blocco navale per “fermare le partenze dei barconi” o, addirittura, riproducendo il video di uno stupro a Piacenza perché perpetrato da un richiedente asilo. “Les fascistes aux portes du pouvoir” allora? Cresce, in realtà, la sensazione che non sia del tutto scontato che un corpo elettorale sfiduciato, deluso, non rappresentato da grandi culture politiche si consegni nelle mani della signora in nero. Come avere fiducia in chi dopo tanti anni di esperienza parlamentare (16) e di governo (oltre 3) non sta volentieri nelle istituzioni (“Dio sa se fare la cameriera m’abbia insegnato più di quanto m’abbia insegnato spesso stare in Parlamento”)?

Alla fine, forse, magari per il riaffiorare di una residua capacità di calcolo dei veri interessi, gli elettori percepiranno che gli svantaggi di un potere senza classi dirigenti e adeguata cultura di governo superano di gran lunga le assai dubbie convenienze. Una destra della paura (“che coraggio questo signore: catenina restituita e ladro in galera!”, esclama la leader della fiamma per esaltare lo sforzo ginnico di un anziano italico all’inseguimento di un marocchino) potrebbe essere la prima vittima della paura contagiosa di vedere i palazzi delle istituzioni occupati dalle esagerazioni verbali e scenografiche di Meloni, Salvini e dalla loro corte di “fascisti liberali” immaginari.