Cent’anni fa ci fu la marcia su Roma. Il 28 ottobre del 1922. Era sabato. La marcia fu guidata da Benito Mussolini, capo di un piccolo partito, cioè il partito fascista, che alle elezioni dell’anno precedente aveva eletto 35 deputati su 535. Il partito di Mussolini era entrato in parlamento grazie all’alleanza con i liberali di Giolitti. La marcia avvenne dopo mesi di violenze, delitti, uccisioni di militanti antifascisti, roghi nelle prefetture, nelle camere del lavoro, nelle sedi socialiste.

Il re, in quel tragico giorno di autunno, cedette al panico e invece di firmare lo stato d’assedio che gli era stato chiesto dal primo ministro chiamò Mussolini e gli consegnò l’incarico di formare il nuovo governo. Come mai Mussolini, che controllava circa il 7 per cento del Parlamento, riuscì ad avere l’incarico dal re e poi la fiducia dalla Camera? Perché molti settori liberali, e anche in parte popolari, si convinsero che la cosa migliore da fare fosse piegarsi. Serviva a spegnere l’incendio. Non sapevano chi era Mussolini? Non conoscevano il torrente di violenze e delitti che avevano preceduto la marcia su Roma? Sapevano, conoscevano.

In politica molti hanno doti e molti hanno difetti. Il difetto più comune è la vigliaccheria. Da quel giorno, e per molti anni, l’Italia non fu più uno stato di diritto. Si tornò a votare con pluralità di liste solo una volta, nel 1924, ma furono elezioni sfregiate da una campagna elettorale nella quale la violenza fascista dominò tutto, e poi il voto fu inquinato dai brogli. Il successo di Mussolini fu clamoroso, prese più del 60 per cento dei voti. Il capo dei socialisti, Giacomo Matteotti, pronunciò un furioso discorso in parlamento per denunciare violenze e imbrogli. Qualche giorno dopo una squadraccia fascista lo aspettò sul Lungotevere, vicino a piazzale Flaminio, mentre usciva di casa e si dirigeva alla Camera, lo rapì poi lo uccise e gettò il suo corpo in un bosco. Mussolini fu travolto dallo scandalo. Il regime per almeno sei mesi rischiò di cadere.

Poi, il 3 gennaio del 1925 Mussolini andò in parlamento, rivendicò il delitto, minacciò di trasformare la Camera in un bivacco dei suoi manipoli. Rischiò e vinse. L’anno dopo varò leggi speciali, mise fuorilegge i partiti, ne fece arrestare i capi. Fu imprigionato anche Antonio Gramsci, sebbene fosse deputato e protetto dall’immunità. Sturzo, il capo dei popolari, Turati, il mito socialista, i fratelli Rosselli, Togliatti e moltissimi altri si rifugiarono all’estero. In Francia e in Russia. La democrazia tornò in Italia solo vent’anni più tardi, dopo una guerra terribile e dopo l’olocausto degli ebrei al quale il governo italiano partecipò. Tornò grazie alla guerra partigiana e alle armate americane e britanniche (ma anche di altri paesi, per esempio del Marocco francese, i cui soldati furono decisivi ed eroici nello sfondare le linee tedesche e prendere Cassino).

Cent’anni. Sono passati cent’anni dalla marcia su Roma. Non ci sono più, da almeno una decina d’anni, persone viventi che se ne ricordino. Oggi la domanda è questa: esiste ancora l’ombra, il rischio, la minaccia del fascismo? Io rispondo di no e di sì. Di quel fascismo, quello squadrista e assassino, no. L’ombra è svanita e non tornerà. La civiltà europea, che a metà del secolo scorso toccò il punto più basso rispetto a ogni civiltà precedente, è cresciuta enormemente in questi ottanta anni. Spinta dalla forza portentosa di ideologie e culture che si richiamavano – e ancora si richiamano, credo – al liberalismo, al socialismo, al cristianesimo democratico. C’è stata Bad Godesberg, che è il luogo fisico e dello spirito nel quale il marxismo europeo ha compiuto la scelta democratica. Non solo il socialismo tedesco. C’è stato il Concilio Vaticano II, che ci ha portato fino al “socialismo” montiniano e poi agli sviluppi clamorosi del bergoglismo.

C’è stata la grande modernizzazione e americanizzazione della cultura e del pensiero liberale, che oggi non è più figlia di Giolitti, ma della sua robusta fronda antifascista, amendoliana o radicale che dal fascismo era stata sbaragliata. E poi c’è l’Europa. Mettetela come vi pare con l’Europa, criticatela – e fate bene – disprezzatela anche, se volete – e forse fate bene – ma è una muraglia contro le dittature. Invalicabile. Poi però rispondo anche sì. Il fascismo, come ordine di pensiero, non è affatto morto. È vasto. Attraversa il popolo e i partiti. Entra nei vicoli delle città e dei paesi e si insinua dentro i luoghi del potere. Nel governo, nel sottogoverno, nell’opposizione e nella sotto-opposizione. Parlo del fascino intriso di intolleranza, di odio, di illiberalità, di repressione, di culto della punizione, di giustizialismo, di sospettissimo, di presunta eticità che oggi ha preso il sopravvento nello spirito pubblico.

Certamente questo fascismo nella destra è molto forte. Ed è di natura tradizionale. Lo si sente aleggiare nelle stesse parole di Giorgia Meloni, nel suo vocabolario. Merito, famiglia, patria, nazione. Avete notato o no che Giorgia Meloni ha abolito la parola “paese” e l’ha sostituita con la parola “nazione”? Nel linguaggio politico italiano – democristiano, socialista, comunista, liberale, repubblicano – dal 1945 ad oggi si è sempre usata la parola “paese” per indicare l’Italia. Perché? Perché la parola nazione contiene l’idea di nazionalismo, e il nazionalismo è una malattia dalla quale la politica italiana nata dopo la fine del fascismo era vaccinata. La politologia conosceva come un assioma il fatto che il nazionalismo è l’embrione del fascismo e dell’autoritarismo. Del resto neanche in America (che pure il fascismo non lo ha vissuto) non si usa la parola Nation. Si dice Country, cioè terra, paese. Da qualche giorno invece Giorgia Meloni sta imponendo la parola nazione a tutti. Lei usa solo quella parola. Altri la stanno imitando. Ha fatto questa scelta per caso? No, Giorgia Meloni è una politica navigatissima e anche sofisticata, nonostante il romanesco.

Sta cambiando il vocabolario, e imponendo il suo, per ragioni strettamente ideologiche. Meloni non è fascista ma pensa di avere bisogno di un continuo ammiccamento, di uno sguardo all’indietro, di un po’ di nostalgia. È il cemento della sua politica. È ideologia? Si, è l’ideologia vecchia vecchia, quella senza ideali. O con ideali inservibili: patria, nazione, famiglia, decoro, merito. E dietro questi ideali si nasconde la tipica intolleranza della destra. Punizione, giustizia, carceri, 41 bis, severità. Poi certo – e questa, è vero, è una garanzia per tutti – c’è l’ambiguità, la giravolta. Perciò sceglie Nordio alla giustizia, cioè l’opposto esatto del fascismo.

E qui si arriva all’altro pezzo del fascismo, che a volte amoreggia e spesso invece si scontra col fascismo di destra. Il grillismo, per capirci. Che ha sostituito tutte le ideologie precedenti col qualunquismo e il giustizialismo. Ha moltissimi punti in comuni con il vecchio fascismo, escluso, evidentemente, l’aspetto più truce del fascismo, cioè la violenza. Il grillismo è pacifico. Odia ma non picchia. Avete sentito Scarpinato l’altro giorno alla Camera? Ha detto più o meno questo: usando la legalità non ho ottenuto niente, non sono riuscito a portare nemmeno un grammo di valore alla battaglia contro la mafia. Allora ci provo col sospetto, con la politica, con la mia idea che certi partiti, che odio, vanno esclusi dal consesso civile.

Leggete bene il discorso di Scarpinato perché l’essenza del fascismo moderno è proprio lì. In quel pensiero, anche in quella idealità, in quel desiderio di purificazione, incoltamente dannunziano. La cosa che mi preoccupa di più è che quando ha parlato Scarpinato, un pezzo di Pd l’ha applaudito. Che vuol dire? Che l’antifascismo, nel senso vero e moderno del termine – tolleranza, garantismo, inclusione, accoglienza, indulgenza, uguaglianza – è diventato uno schieramento esilissimo. Anche un pezzo di sinistra è stata travolta dal nuovo fascismo. Scusate se uso termini forti, ma se non li usi è inutile, Non si capisce. Io dico solo questo. Cent’anni dopo la marcia su Roma il rischio di un nuovo fascismo è grandissimo.

Avatar photo

Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.