Il film è una grossa delusione
Il film Barbie non è inno al femminismo: accetta lo status quo patriarcale e valida lo stato delle cose
Nel Si&No del Riformista spazio al film Barbie: è un inno al femminismo? Favorevole la nostra giornalista Claudia Fusani che ringrazia Greta Gerwing perché “alla fine è diventata normale e ordinaria come noi”. Contraria invece Ermelinda M. Campani, direttrice Stanford Florence, che boccia il film perché “accetta lo status quo patriarcale e valida lo stato delle cose”.
Qui il commento di Ermelinda M. Campani:
Sono andata, vestita di rosa, a vedere il film del momento, Barbie (Greta Gerwig, 2023) e sono uscita sbiancata. Il film è una grossa delusione. È una pellicola che non va su nessun fronte. Soprattutto su quello femminista. L’idea è quella di una specie di scambio di ruoli tra donne e uomini. Le Barbie sono a capo del loro mondo. Una è la presidente della Barbieland, altre siedono sugli scranni della Corte Suprema; c’è poi la scrittrice di successo, la fisica, la dottoressa e una che fa l’avvocato. I Ken, invece, e dunque gli uomini, sono tutti personaggi deboli. Basta dire che è Barbie a guidare l’auto decappottata mentre a Ken è riservato il sedile posteriore. Nel mondo “reale,” invece, i posti di potere sono occupati solo dagli uomini, come quelli che siedono nel consiglio di amministrazione della Mattel.
L’intuizione del film non è femminista e nemmeno nuova. Non è femminista perché non riscrive i ruoli, ma si limita ad accettare lo status quo patriarcale facendo occupare la posizione simbolica dell’uomo (forza, potere, sguardo) a una donna, e quella della donna (fragilità, domesticità, lacrime) a un uomo, come se così facendo si assistesse a un avanzamento della causa femminista. Invece in questo modo la pellicola valida e accetta supinamente lo stato delle cose che vorrebbe ribaltare. E lo scambio di ruoli non è nemmeno nuova come intuizione. Su questo tema è infinitamente più interessante un breve video francese di undici minuti, disponibile gratuitamente su Internet, dal titolo eloquente, Majorité Opprimée (E. Pourriat, 2010). Ancora: analogamente a Pinocchio, che cessati i panni della marionetta diventa bambino, alla fine del film la Barbie si trasforma in una donna in carne e ossa. Ma cosa fa come primo atto ufficiale da donna libera che si è “disvestita” degli stereotipi che ha fino a quel momento incarnato? Va a prendere un appuntamento con il ginecologo. La femminilità definita attraverso la sessualità. Altro che femminismo!
Quello che il film della Gerwig fa invece molto bene è riassumere una serie di questioni che rappresentano l’essenza del discorso pubblico americano figlio, in gran parte, della political correctness. E allora via con tutti i temi caldi: l’inclusione (ogni razza è rappresentata nel film), lo sdoganamento della cellulite e dell’ansia, l’idea che essere se stessi è OK e che ognuno basta a se stesso – capirai che grande intuizione! Raramente la banalità ha raggiunto queste vette in un film. All’uscita del cinematografo (pieno di adolescenti nonostante fosse un pomeriggio di Agosto), una nonna cercava di ripristinare un po’ di joie de vivre e di fiducia nella nipote (più o meno tredicenne) che era riemersa del tutto stranita dalla proiezione.
Chi ha dimestichezza con le strade di Los Angeles, con la storia (anche recente) del cinema (il film è pieno di citazioni), con la cultura popolare americana, e con l’inglese potrà semmai apprezzare questo livello di lettura del film e farsi qualche risata. E certamente la grammatica filmica, la sceneggiatura e la fotografia sono tutte impeccabili. D’altra parte sarebbe stato difficile il contrario visti i nomi che la pellicola schiera (Sarah Greenwood e Jacqueline Durran), oltre a quello della regista. Per il resto, e al netto della straordinaria performance di Ryan Gosling, il film non vale i sei euro del biglietto.
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