Il nuovo ciclo politico in cui è entrato il paese è segnato dal grande fattore parallelo alla conquista del governo da parte della destra. Per la prima volta l’Italia è senza una sinistra politica protagonista della sua storia. Per tutto il dopoguerra la sinistra, che ne è stata una protagonista fondamentale, ha avuto una precisa connotazione, è stata un soggetto politico del movimento operaio, comunista, o socialista, riformista o rivoluzionaria. Le due sinistre. Nessuna delle due ha saputo ricostruirsi alla fine del dopoguerra.
La povera illusione nuovista di fondarsi altrove è sempre stata debole e leggera ed è fallita rapidamente. Con la fine del dopoguerra, finisce la sinistra politica. È l’altra faccia del nuovo ciclo, l’altra, oltre a quella del governo della destra, dura novità che concorre a disegnare la sua geografia politica. Per questo anche chi, come chi scrive, pensa che la rinascita della sinistra possa realizzarsi solo fuori e nella critica delle organizzazioni, dei partiti attuali della sinistra istituzionale, conviene osservare ciò che li accade. Malgrado sia ormai evidente che il partito di Conte sia oggi la principale forza di opposizione e che, dunque, da questo punto di vista la sua azione debba essere pienamente considerata, non altrettanto è proponibile sul versante della ricerca sulla sinistra. Del resto per molte e comprensibili ragioni ci si interroga sul futuro del Partito Democratico nello spazio pubblico del paese mentre, per altrettante comprensibili ragioni, di fronte al Pd come concretamente è nella realtà, crescono persino gli interrogativi più radicali sulle sue possibilità di avere un qualsiasi futuro.
Mettiamo da parte, non perché irragionevole ma poiché negata da tutti i possibili protagonisti, l’ipotesi di autoscioglimento del partito. Essa è interpretata, purtroppo, come atto ostile, invece che, come potrebbe essere, un processo liberatorio di energie che potrebbero risultare utili all’impresa di ricostruzione di una sinistra. Facciamo, allora, come se il Pd fosse riformabile, per vedere a che punto sta del suo cammino e se si affaccia un qualche futuro per la sinistra istituzionale o se, al contrario, esso si riveli, alla luce degli atti, impraticabile. Nell’attuale dibattito manca in primo luogo un principio di realtà. Non c’è il senso drammatico che il partito non è mai stato peggio di così eppure continua a calare nel consenso, come testimoniano persino i sondaggi. Di male in peggio. Non c’è un dibattito politico all’altezza della sfida, conseguenze anche della scelta sul modo con il quale affrontarlo. Si è scelto, infatti, di evitare l’unico modo che l’avrebbe potuto sollecitare: un congresso classico, vero, convocato su uno o più documenti, con tesi alternative sulle scelte strategiche e su quelle programmatiche. Invece si è scelto di nasconderle, o peggio di ignorarle, dietro una competizione tra candidati leader, mentre l’intero gruppo dirigente che porta la responsabilità di questo esito drammatico non ha neppure sentito il dovere di mettersi da parte.
Manca persino il senso del dramma politico che oggettivamente il Pd vive. Soprattutto manca una partecipazione, non già di una qualche minoranza attiva, ma del popolo della sinistra che resta distante, disperso e sfiduciato. E senza popolo non c’è salvezza. Pesano, come macigni sul dibattito del Pd, due grandi vuoti, appunto strategici. Uno riguarda il passato, l’altro il futuro. Il primo credo tragga origine dal rifiuto di indagare le ragioni storiche del fallimento del progetto Pd. Ma se proprio non si vuol capire cosa è successo nel percorso che ha condotto dallo scioglimento del Pci, passaggio decisivo, ad oggi, almeno sarebbe necessario indagare l’intera vicenda del Pd. La tesi del partito a vocazione maggioritaria su un nuovismo interclassista fondato sull’abbandono di tutta la tradizione del socialismo in Europa, comunista, socialista, laburista, socialdemocratica, chiamata ad essere sostituita da un vago orizzonte democratico innervato sulla incondizionata adesione al mercato, proprio questa tesi, questa ispirazione è stata ed è la prima responsabile del fallimento del progetto Pd. Esso è stato poi favorito dalla sua genesi, non l’incontro tra le culture del movimento operaio e quelle del cattolicesimo democratico, bensì quello tra due burocrazie dimentiche delle proprie origini.
Il secondo riguarda il futuro, il futuro da riconquistare. Esso non è dato per nessuno, ma nessuno, tanto meno il Pd può trovarlo senza un grande lavoro di ricerca teorica e pratica, una ricerca partecipata. Si tratterebbe, in ogni caso, di un lavoro di lunga lena. Ma nel caso del Pd di oggi il problema è che non se ne vede l’inizio, l’idea forza da cui partire, la leva. Eppure la domanda di partenza sarebbe d’obbligo: “quale sinistra?”. Nel campo largo e un po’ indistinto in cui il Pd dovrebbe essere collocato, seppure ancora sottotraccia, emerge un gran ritorno che, in termini del tutto inediti per entrambe le ipotesi, propone la scelta tra liberale o socialista. La suggestiva ipotesi liberalsocialista è bruciata dal carattere materiale e ideologico del capitalismo finanziario globale, incompatibile persino con la democrazia, figurarsi con la mediazione di classe.
La lotta di classe è oggi uno spartiacque nella politica. Il suo fantasma si aggira nei suoi territori. Il nuovo approccio liberale non sostiene soltanto la fine del movimento operaio e delle sue istituzioni, il partito e il sindacato, ma la fine del conflitto di classe in una società radicalmente diversa da quella che l’ha preceduta. Ha scritto recentemente a sostegno di questa tesi, con la consueta lucidità, Biagio De Giovanni. La tesi socialista, al contrario, vede nella nuova società, quella chiamata anche del turbo capitalismo, il carattere decisivo della contesa di classe. Il ‘900 è finito, cambia la società intera, cambia profondamente il mondo del lavoro, strutturalmente e soggettivamente. Irrompono da protagonista scienza e tecnica, la comunicazione si fa società dello spettacolo. Tutto cambia, ma tutto è attraversato da un sempre inedito conflitto di classe. La sociologia, la psicologia, le scienze umane lo possono analizzare nelle sue forme concrete. La sinistra socialista, deve saperla riconoscere come un fondamento delle sue politiche di riforma della società, insieme alle nuove culture e pratiche critiche e di liberazione.
Il Pd dovrebbe scegliere una tra le due ipotesi forti per intraprendere la via della rinascita. La sottrazione a questa scelta o per negazione del suo carattere fondativo o per ignoranza dei termini stessi della scelta, oppure per inerte prosecuzione di ciò che è stato e che è rimasto, confermerebbe soltanto l’irriformabilità di una formazione politica senza elaborazione del passato e senza immaginazione di un diverso futuro. Darebbe ragione a Alain Badiou quando ne “La Comune di Parigi” sosteneva che i proletari non dovrebbero mai rimettere il proprio destino “nelle mani dei politici competenti” ma fronteggiare la situazione con le sole risorse del movimento proletario. A meno che altri portatori di esperienze, istanze, culture critiche sappiano riaprire un rapporto, un sistema di relazioni tra il conflitto e la politica attraverso il quale possano riconquistare la propria autonomia del sistema per sottrarsi dal dominio del capitalismo. Per non essere solo spettatori.