Israele si prepara a marciare sul Libano. Con quali rischi e quali prospettive? Risponde Giorgio Cuzzelli, generale di brigata dell’Esercito Italiano in congedo, uno di maggiori esperti di strategia militare che nel corso della carriera ha comandato unità ad ogni livello, dal plotone al reggimento, nazionali e multinazionali, in patria ed all’estero. Attualmente insegna all’Università Lumsa “Studi strategici e sicurezza internazionale”.

Israele preme sul Libano. Quella di fermare i terroristi di Hezbollah nei territori confinanti è un’esigenza insopprimibile per lo Stato ebraico?
«Israele nasce nel 1948 con lo scopo di fornire agli Ebrei un porto sicuro dopo la tragedia dell’Olocausto. Questa è la sua ragion d’essere. Dunque fermare chiunque attenti all’incolumità dei cittadini è un compito fondamentale».

Giorgio Cuzzelli, generale di brigata dell’Esercito Italiano in congedo
Giorgio Cuzzelli, generale di brigata dell’Esercito Italiano in congedo

A Gaza il terrorismo di Hamas è stato disarticolato. Ora bisogna che Tsahal riesca nella stessa operazione con tutti i proxy iraniani…
«I movimenti insurrezionali, quali Hamas o Hezbollah, incarnano prima di tutto un’idea e poi un’organizzazione. Disarticolarli in modo permanente è pertanto un’operazione dall’esito non scontato. A maggior ragione se tali movimenti sono manovrati dall’esterno. Di conseguenza, Israele ben difficilmente potrà eliminare in via definitiva le minacce ai suoi confini. Ciò che può fare è ripristinare la propria capacità di dissuasione, compromessa dall’attacco del 7 ottobre. Deve cioè alzare il prezzo dello scontro a un livello tale da costringere gli avversari a rinunciare ad attaccarlo. Che è poi il principio della dissuasione. Non è la soluzione ideale, ma è meglio della guerra permanente».
Il Libano è una polveriera, da sempre. Uno stato-fantoccio con dentro tutti, dai russi ai giordani, dai turchi agli iraniani. Con gli italiani di Unifil in mezzo…
«La presenza italiana in Libano si deve al più recente tentativo di pacificazione del conflitto tra Israele e Hezbollah posto in essere dalla comunità internazionale dopo i fatti del 2006. Tentativo che è sinora riuscito, perché entrambi i contendenti avevano deciso di rinunciare allo scontro aperto. I fatti del 7 ottobre, e l’appoggio dato da Hezbollah alla causa di Hamas in Palestina nel colpire la parte settentrionale di Israele hanno cambiato i termini dell’equazione».

Sinwar sarebbe stato eliminato. Certamente lo sono stati molti dei capi dei terroristi. E centinaia di chilometri di tunnel sono stati fatti saltare. Dura da dirsi, visto il tragico bilancio di vittime civili, ma forse Nethanyahu aveva delle ragioni nel dare la caccia ad Hamas?
«A fronte dell’attacco del 7 ottobre, sul piano politico Israele non poteva che cercare di riaffermare con ogni mezzo la propria capacità di dissuasione verso l’esterno e la volontà di proteggere i propri cittadini all’interno. Di conseguenza, dal punto di vista militare gli obiettivi erano – e sono tuttora – tre: ripristinare l’integrità delle frontiere, neutralizzare in modo permanente la minaccia di Hamas e, da ultimo, riportare a casa gli ostaggi. In questo quadro manca tuttavia una soluzione politica del problema palestinese, senza la quale non vi sarà mai pace».

Entrare boots on the ground in Libano non sarà una passeggiata. Quali insidie, quali minacce vede per l’esercito israeliano?
«Il precedente del conflitto del 2006 non è incoraggiante. Per reagire a un attacco portato alle comunità di frontiera nel Nord del paese – una specie di 7 ottobre in piccolo – Israele attaccò Hezbollah in tre fasi: offesa aerea molto intensa e limitata nel tempo, attacco terrestre limitato concentrato su alcune aree di confine, e infine offensiva terrestre generalizzata in tutto il Sud del Libano quando si vide che la seconda fase non stava conducendo da nessuna parte. Lo strumento militare israeliano incontrò tuttavia gravi difficoltà. Tant’è che si arrivò ad un armistizio imposto dall’esterno. Oggi la situazione è radicalmente diversa per i primi due fattori, dal momento che Gerusalemme si prepara a questo scontro da almeno un decennio, e identica invece per gli ultimi due. Dunque, non una passeggiata. E per questo non sono certo che Israele tornerà a percorrere le antiche strade».

Israele riuscirà a combattere simultaneamente sul fronte di Gaza, in Libano, presidiando la Cisgiordania, sorvegliando il cielo per i missili iraniani e assicurando nelle sue città la sicurezza interna?
«In condizioni normali uno strumento militare è in grado di esercitare uno sforzo principale e al massimo due sforzi sussidiari. In aggiunta, le forze armate israeliane sono di mobilitazione, e vi è quindi un limite da non superare. Oggi gli sforzi principali invece si moltiplichino. Mi auguro che il vertice militare stia agendo sul livello politico».

Biden e Macron chiedono a Nethanyahu di valutare un cessate il fuoco. Quali iniziative di pace vede possibili? Bisognerà aspettare il nuovo presidente Usa per portare i contendenti al tavolo dei negoziati?
«Finché Israele verrà colpito in casa propria il conflitto non si arresterà. Mi pare perciò che l’azione della comunità internazionale si debba esplicare in direzione di Teheran, affinché induca i propri succedanei a desistere, oltre che verso Gerusalemme».

L’Italia può avere un ruolo di peace-keeping nella regione, nel prossimo futuro? Ha l’esperienza e l’autorevolezza per guidare una missione di peace endurance?
«Qualunque iniziativa della comunità internazionale negli attuali teatri di conflitto può beneficiare dell’esperienza italiana, purché essa goda del consenso delle parti in lotta e sia sostenibile dal Paese».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.