Il Generale Pietro Serino, Capo di Stato maggiore dell’Esercito dal 2021 al 2024, unisce alla competenza militare la passione politica: si è iscritto al Partito Liberaldemocratico nato poche settimane fa.

La preoccupa il disimpegno Usa dall’Europa?
«In realtà la richiesta di maggiore impegno degli europei venne ufficializzato dopo il vertice Nato nel Galles, nel 2014. C’era Barack Obama alla Casa Bianca. Sicuramente i metodi e i modi dell’amministrazione Trump sono molto diretti, ma non possiamo dirci sorpresi».

Dal 2014 ad oggi è cambiato il mondo, anche per la Difesa siamo in un’altra epoca.
«Allora c’era un programma, Partnership for Peace, che vedeva una collaborazione a livello militare tra Nato e Russia. Le relazioni erano buone e gli eserciti sembravano avviati a una cooperazione fruttuosa. Poi Putin decise di invadere la Crimea e le cose iniziarono a cambiare. Abbiamo fatto molti passi indietro. E la richiesta di investire nella Difesa, sempre più pressante da parte americana, si fa sempre più urgente da parte europea. Noi dobbiamo predisporre oggi la potenzialità di una risposta armata, lavorando alacremente con la politica e la diplomazia affinché la stessa non serva mai».

Lei ha fatto il Capo di Stato maggiore dell’Esercito, come vede la nostra capacità di adesione al progetto di riarmo europeo?
«Prima di essere Capo di Stato maggiore dell’Esercito ero Generale di divisione responsabile del bilancio della Difesa italiana, a livello tecnico-militare. Una buona tribuna per valutare l’aumento delle spese militari, che dieci anni fa toccava appena l’1% del pil e oggi è intorno all’1,5%, ma deve arrivare al 2% e tendenzialmente superarlo. Significa raddoppiare le risorse rispetto a pochi anni fa. Equivale quasi a scalare l’Everest».

Cosa hanno fatto gli ultimi governi?
«Ero Capo di Gabinetto del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, nel governo Conte II. Iniziò lui ad istituire un fondo ad hoc per l’ammodernamento dello strumento militare nazionale. Fondo che poi è stato rinnovato e rifinanziato ogni anno con una dotazione, mi riferisco all’ultima legge di bilancio, di 22,5 miliardi spalmati in quindici anni. C’è uno sforzo importante ma l’obiettivo del 2% è ancora lontano. Lo scenario internazionale oggi ci impone di ridurre drasticamente i tempi».

Poi non c’è solo il quanto si spende, ma il come.
«C’è il quanto e c’è il come, ovvero il tipo di investimenti, di tecnologia, di ammodernamento. Aggiungerei un terzo elemento: la certezza delle risorse. Il mercato militare ha solo clienti istituzionali, governativi. Spesso e volentieri i governi modificano di anno in anno le loro priorità, sono clienti talvolta non continui. Le aziende hanno bisogno non solo e non tanto di investimenti corposi, ma di impegni prolungati nel tempo. Soprattutto le dotazioni ad altissima tecnologia hanno bisogno di impegno di medio periodo, il personale va formato bene e servono periodi medio-lunghi per ottimizzare gli investimenti tecnologici più sofisticati».

A quali condizioni manderebbe un contingente italiano in Ucraina?
«A due condizioni necessarie e imprescindibili: le forze di interposizione intervengono dopo un accordo di cessate il fuoco, e con una adeguata copertura Onu. Può essere anche non Onu direttamente, come avvenne per gli interventi a cui l’Italia ha preso parte nell’area balcanica: c’era una risoluzione Onu a monte ma con l’operatività delegata al Comando Nato».

Noi siamo pronti, come Forze Armate?
«L’Italia è pronta, più e meglio di molti altri. Abbiamo tutta la capacità e l’esperienza. E lo abbiamo sentito anche dalla voce del ministro della Difesa: se ci fosse un mandato Onu, e nessuno dei due contendenti si mostrasse contrario, saremmo prontissimi a intervenire per la pace in Ucraina».

Naturalmente, nel caso di una pace giusta, accettata dal comando militare ucraino.
«Certamente. Nell’ambito di una cornice di garanzie di sicurezza per l’Ucraina, che rispondono a un’altra logica: va garantita l’integrità dell’Ucraina a valle degli accordi di pace che spero arriveranno presto».

Generale, lei ha fatto una carriera militare importante. Perché ha deciso di impegnarsi con il Partito Liberaldemocratico?
«Penso che il mio bagaglio di competenze possa dare un contributo al dibattito pubblico e a ridare il giusto spazio a quella cultura della sicurezza e della Difesa che in Italia manca».

Lei si occupa di strategia militare, andando alla politica: tra la destra e la sinistra vede uno spazio da conquistare, per i liberaldemocratici, al centro tra i due poli?
«Soprattutto per il momento di tensione internazionale che stiamo attraversando, andrebbero esaltate le scelte ponderate e equilibrate. Va recuperata la virtù dell’equilibrio: in medium stat virtus. Nel senso del recupero della capacità di mediazione della politica e della centralità che può avere una formazione liberale nell’Italia di oggi».

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.