L’altro giorno la Corte Internazionale di Giustizia ha comunicato che il governo della Repubblica d’Irlanda è intervenuto nel procedimento per “genocidio” avviato, alla fine del 2023, su ricorso del Sud Africa. La notizia non è sorprendente perché l’intervento era stato preannunciato già settimane addietro. Così come non è sorprendente – anche questo era preannunciato – il punto “forte” della mossa irlandese, vale a dire la proposta che la Corte, nel decidere sul ricorso sudafricano, modelli i criteri di riconoscimento del delitto di genocidio affinché calzino sul caso israelo-palestinese.

Ma, se il fatto grezzo della notizia non sorprende, c’è tuttavia da trasalire nell’esame delle 27 pagine lungo le quali l’Irlanda spiega perché, e soprattutto come, bisognerebbe “reinterpretare” i criteri identificativi del crimine in questione, appunto il genocidio. Il perché è semplice: a legge e a criteri interpretativi invariati, spiega l’Irlanda, la sussistenza del genocidio del popolo palestinese per responsabilità di Israele potrebbe non essere riconosciuta.

Insomma, c’è il rischio che Israele la faccia franca. Il come, cioè la modalità di riadattamento giurisprudenziale proposto dall’Irlanda per far calzare la figura del genocidio sulla guerra di Gaza, è un groviglio tanto captatorio quanto inestricabile di condizioni, deroghe, suggestioni analogiche, rinvii a precedenti incongrui, il tutto rivolto a dimostrare che il genocidio c’è anche se non si vede, che l’intento genocidiario ci sarebbe anche se non ci fosse, che le prove del genocidio ci sono ma se anche non ci fossero il genocidio ci sarebbe lo stesso, e via di questo passo.

Non annoiamo il lettore con l’elenco specifico e testuale degli argomenti con cui si sviluppa l’inventiva irlandese. Basti dire, per esempio, che, a giudizio dell’Irlanda, l’intenzione di commettere genocidio non sarebbe un presupposto imprescindibile. Nel senso che basterebbe dimostrare la consapevolezza, in chi è accusato di averlo commesso, del fatto che i propri atti siano idonei a commetterlo. Ma si può dimostrare quella consapevolezza?

Non si può, e allora si dice (l’Irlanda dice) che bisogna esaminare la concretezza e gli effetti di quegli atti, cioè i bombardamenti, le uccisioni e i presunti programmi per l’inflizione della carestia: tutti atti i quali (trattenete il fiato perché è lunga) “diventano” genocidio perché chi li ha ordinati, pur non ordinandoli con intenzione genocidiaria, non poteva non sapere neppure che essi si sarebbero risolti, ma anche solo si sarebbero potuti risolvere, nel genocidio che non c’è, ma che diventa tale perché il responsabile, pur non avendo intenzione di commetterlo, e pur non avendolo commesso, ha ordinato o commesso fatti che avrebbero potuto dar luogo al genocidio, vale a dire il crimine che non c’è senza l’intenzione di commetterlo ma che c’è perché l’intenzione di commetterlo, in realtà, o non deve intendersi come l’intenzione di commetterlo, oppure risiede nella consapevolezza, che non può essere provata ma amen, che i propri atti potrebbero determinare, anche se non ne hanno determinati, effetti di genocidio. Se il lettore ha mal di testa, è perdonato. È quel che si dice la certezza del diritto.