È del tutto comprensibile che il giornalismo anti-israeliano che sta “sul campo” concepisca il proprio lavoro come un legittimo strumento di aiuto alla cosiddetta resistenza. Si comprende meno la pretesa che quello sia considerato giornalismo. È normale (è il loro compito) che i presunti cronisti embedded in Hamas rispondano alle direttive della committenza terroristica disseminando notizie false e censurando quelle vere.
È meno normale che se ne accrediti l’attività di propaganda spiegando che la loro controparte dovrebbe contribuire ad accreditarla. Sarebbe come chiedere ai cortei pro Palestina e al pacifismo dal fiume al mare di affidarsi al colono fondamentalista che, agitando la Bibbia, fa il resoconto su un’incursione in un villaggio della West Bank. Il politico che negli Stati Uniti, in Europa e qui da noi, in Italia, denuncia il massacro di quaranta o cinquantamila “civili”, riporta i dati falsi di quella militanza. E va bene (si fa per dire). Si tratta, cioè, di una legittima scelta di campo. Va meno bene se questa scelta si agghinda di neutralità osservatrice e chiede rispetto e protezione per la fonte cui si abbevera. I reportage sulle “zone di sterminio” che l’esercito israeliano avrebbe predisposto e posto in funzione a Rafah vanno benissimo per rimpolpare i ricorsi sudafricani alla Corte dell’Aia, ma hanno la dignità giornalistica di una velina da tunnel e dovrebbero essere considerati per quel che sono: i mezzi di una guerra che si combatte anche così.
Il presunto giornalismo che snocciola i numeri sulla carestia a Gaza è ottimo per lo statement del prosecutor della Corte Penale Internazionale che chiede l’arresto di Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant: ma è giornalismo così, per modo di dire; è, semmai, comunicazione per procura che porta in aula di giustizia un fracco di balle perseguendo l’obiettivo – a suo modo legittimo – di condurre e vincere la guerra sul fronte diverso dell’impressionismo internazionale. La notizia circa l’ultima serqua di giornalisti di Al Jazeera cui l’esercito israeliano imputa – non proprio senza indizi – implicazioni con Hamas e con il jihadismo islamista, potrebbe rappresentare certamente un caso di pretestuosa contro-guerriglia informativa. Ma spacciare che si tratti di ipotesi stralunate e contraddette da un anno di prove contrarie è almeno azzardato, vista la quantità di episodi del tutto simili, e non smentiti, che si sono registrati in quello scenario di guerra.
E il fatto che si tratti di uno scenario di guerra, ovviamente, è tutt’altro che irrilevante nel quadro della rappresentazione corrente secondo cui non si tratterebbe d’altro che di avere “verità” sul “genocidio”, verità sulla “punizione collettiva”, verità sulla “pulizia etnica”, vale a dire sulle cose che quel presunto giornalismo, da un anno, è impegnato a certificare con l’inoppugabilità ballerina dei dati inventati.
Il cronista del genocidio, della punizione collettiva, della pulizia etnica, infatti, gode – diciamo così – di una libertà narrativa, di una affidabilità connaturata e di una guarentigia cui il semplice reporter di guerra non può ambire. E chi pure fosse riconosciuto responsabile di qualche strofinamento, di qualche relazione collaborativa con le milizie che si difendono da quei crimini, ebbene ben potrebbe vantare di essersi abbandonato legittimamente a qualche infedeltà nel riporto delle cose, a qualche disinvoltura, per così dire, nella selezione delle frequentazioni e nell’adempimento del proprio compito informativo. Lo fa per la causa.
Ma chi assiste da qui all’esperimento resistenziale di quel giornalismo dovrebbe assumere il punto di vista di un fruitore un poco più avveduto, salvo appunto trasformarsi in un ricettore e propalatore di menzogne che sono “legittime” – d’accordo – nella penna e nel microfono di quella fonte adulterata, ma cessano di essere tali nell’acquisizione dell’uditorio che acriticamente le fa proprie e colpevolmente le ripulisce.