È il 18 dicembre 2019. L’avvocato Silvia Merlino ha passato i giorni, le nottate precedenti a preparare la discussione di un processo molto delicato: il suo assistito è imputato per violenza sessuale, minacce e molestie nei confronti della figlia minorenne. Attende, con i colleghi, che chiamino l’udienza, fissata per le 12. Qualche minuto dopo l’orario stabilito, il collegio giudicante entra in aula: «in nome del popolo italiano…», dichiara l’imputato colpevole dei reati a lui ascritti e lo condanna alla pena di 11 anni di reclusione. Il Presidente augura ai presenti «Buon Natale» e li congeda. I difensori tutti sono increduli. Si fatica a comprendere ciò che è appena accaduto.

Il tempo di riacquisire lucidità e l’avvocato Merlino si avvicina allo scranno per fare presente al Collegio che l’udienza era stata fissata per la discussione della difesa dell’imputato. Tutti ricordano così, anche il Pubblico Ministero. Dopo alcune verifiche, il Presidente, dott. Amerio, si rende conto del «macroscopico errore». Sotto gli occhi sbigottiti dei presenti, strappa il dispositivo di sentenza che aveva in mano e, stizzito, tuona – rivolto all’avvocato Merlino – «allora discuta!». Naturalmente, il difensore si rifiuta di concludere e valuta l’opportunità di ricusare i giudicanti.

A quel punto allora il Presidente dichiara che il Collegio si sarebbe astenuto e trasmette gli atti al Presidente del Tribunale. Una vicenda, questa, che fa accapponare la pelle anche ai non addetti ai lavori. Eppure, la Procura di Milano non ravvisa gli estremi di un reato – e in particolare del reato di falso per soppressione di atto pubblico – nella condotta del giudice astigiano, qualificando il fatto come un errore privo di quell’elemento psicologico che caratterizza la commissione del delitto in parola. Viene disposta così l’archiviazione. Non resta, allora, che il procedimento disciplinare. Che, almeno quello, si dice, censuri l’operato dei giudici di Asti. Difficile immaginarsi, invece, che tutto si sarebbe concluso – almeno per il momento – a tarallucci e vino. Anche su sollecitazione del Ministero della Giustizia, la Procura Generale della Cassazione promuove l’azione disciplinare contro i tre giudici.

L’accusa di «grave violazione di legge»

L’accusa è quella di «grave violazione di legge» e «violazione del dovere di imparzialità, correttezza e diligenza che ha cagionato un irreparabile nocumento all’imputato e al suo difensore nonché all’amministrazione della giustizia (…), attesa la nullità assoluta e insanabile del processo e la necessità di celebrare un nuovo processo davanti ad altro collegio». In aggiunta, per il solo Presidente, l’accusa di aver adottato un provvedimento sulla base di «grave e inescusabile negligenza», per «aver poi consumato ulteriori conseguenti e connesse violazioni di disposizioni processuali al fine di porre rimedio all’errore commesso». La sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, chiamata a decidere sul punto, nel 2022 – nonostante la Procura Generale avesse insistito per la condanna di tutti e tre – assolve le due giudici a latere e condanna il Presidente Amerio alla sanzione della censura per l’«ingiusto danno all’imputato, causato dalla violazione di regole basilari» correlato all’ «atto abnorme». Un mero biasimo formale, dunque, e privo di conseguenze.

La Cassazione

La questione ad ogni modo, come prevedibile, arriva in Cassazione: il 4 luglio 2023 le Sezioni Unite Civili annullano la condanna del dott. Amerio e restituiscono gli atti al CSM per la celebrazione di un nuovo procedimento disciplinare. In sostanza, la Cassazione accoglie in toto le doglianze del ricorrente, censurando le motivazioni della sentenza del CSM che – in ordine alla «scusabilità» del comportamento in esame – avrebbe liquidato, con affermazioni «apodittiche», «gli argomenti evocati dalla difesa in ordine alla concomitanza di circostanze stressogene verificatasi nel periodo in cui è calato l’episodio in contestazione». Ebbene sì: la difesa di Amerio, tramite un consulente di parte, aveva portato all’attenzione della sezione disciplinare la pretesa correlazione causale tra una situazione “stressogena” legata al lavoro e le condotte poste in essere. La Cassazione asseconda, ritenendo carente la motivazione del CSM, che aveva osservato che gli argomenti difensivi non apparivano tali da poter essere considerati «causa efficiente del comportamento gravemente negligente dell’incolpato, sì da renderlo scusabile». Ma la Suprema Corte non si arresta qui e arriva ad una conclusione quantomeno paradossale: è pacifico – afferma – che l’imputato abbia «avuto, come inevitabile conseguenza della nullità del dibattimento», un «nuovo processo»; «e quindi non solo non ha perso alcuna chance, ma addirittura ne ha avuta una in più».

Una nuova chance?

Chiosa, poi, che nonostante l’«indubbio allungamento dei temi processuali, manca del tutto (…) una valutazione in concreto della dannosità di tale circostanza». Nessuna macchia, dunque, per ora, per il Giudice Amerio, che continua ad esercitare la propria funzione presso il Tribunale di Savona. Si attende la celebrazione di un nuovo giudizio disciplinare. Vien da chiedersi, a questo punto, quale sia stata la sorte del procedimento a carico dell’assistito dell’avvocato Merlino. E se, effettivamente, la celebrazione del nuovo processo abbia offerto una nuova chance agli imputati. Qualcuno potrebbe – a torto! – pensare di sì: la difesa dell’imputato ha finalmente potuto argomentare le proprie ragioni davanti a un diverso Collegio, che lo ha condannato a 7 anni di reclusione, anziché 11. La pena è stata poi ulteriormente ridotta in appello a 4 anni e mezzo. Attualmente pende ricorso in Cassazione. Eppure, questa vicenda non può che lasciare l’amaro in bocca: davvero un magistrato “stressato” è immune da censure a fronte di una così inaudita violazione dei più basilari principi di diritto?

Maria Vittoria Ambrosone

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