Non è suburra né romanzo criminale, e Roma non è preda di mafia né di bande della Magliana, ma pare finalmente una città quasi normale. Pure i “difettacci” di un libro, ben scritto da una penna ben occultata nella toga del magistrato, ci sono tutti.
Una toga da pubblico ministero, anche se nella vita attuale Giancarlo de Cataldo è giudice in corte d’assise d’appello a Roma.
E il pm non solo è il protagonista, nel suo ultimo noir (Io sono il castigo, Einaudi, 18 euro), ma è anche l’unico attore sulla scena. Tanto che non disdegna di lasciarsi chiamare “giudice”, quasi a chiarire non solo che l’assassino lo scoverà lui, ma che quando, nelle ultime pagine appena precedenti quelle del trionfo dell’amore, lui firmerà la richiesta di custodia cautelare, è sicuro che “che il gip avrebbe sicuramente accolto”.
E siamo tutti convinti che ciò sia avvenuto. Perché il lettore, alla fine, avrà capito che lui indaga, accusa e anche giudica. Proprio come facevano un tempo i pretori, prima che fossero aboliti dai “puristi dell’equo processo”. Così dice e pensa, senza pudore, il nostro pm protagonista.
Pure non è antipatico Manrico Leopoldo Costante Severo Fruttuoso Spinori della Rocca dei conti di Albis e Santa Gioconda. Detto il “contino”. Con reverenza e rispetto da Camillo, il valletto di casa, e con sfottò prima dai compagni di un imprecisato collettivo (ricordi di una gioventù vagamente antagonistica), poi dai colleghi, informati da un “untore” che aveva sparso la voce. Magistrati che sono però fantasmi, in un palazzo di giustizia, quello di piazzale Clodio a Roma, che pare abitato solo da lui e dal suo capo Melchiorre, quello che vuole il colpevole subito e che vive nello stereotipo dell’ascolto del “sentimento popolare”, quello dei social che preme e chiede con urgenza di buttar via le chiavi della cella dopo averla ben riempita.
Manrico, detto Rick o anche Richetto e Riché, ma solo dal macellaio amico suo, ama la musica lirica (che pare lo aiuti a risolvere i casi più spinosi), è un pubblico ministero democratico, garantista e dubbioso, una specie di Fabio Fazio che non discute e non litiga. Neppure con l’ispettore Deborah Cianchetti, una bellona di borgata con tatuaggi e chiodo nero in sella alla moto, che usa le maniere rudi e vorrebbe sbattere tutti e subito in galera.
E’ chiamato a risolvere un caso neppure difficile (per noi giallisti incalliti rapidamente risolto), con un omicidio travestito da incidente stradale. Ha al suo fianco una squadra fatta tutta di donne (ci sono due poliziotte oltre all’ ispettrice), che naturalmente non si amano tra loro per almeno tre quarti del libro, e che sono chiamate al lavoro pesante, per non dire quello sporco. Cioè le intercettazioni, telefoniche e ambientali, sparse a piene mani.
I dialoghi carpiti tra parenti del morto, e tra parenti dei parenti e fidanzati e fidanzate, percorrono allegramente tutto il libro. E se qualcuno pensa che l’autore, scottato a sua volta per quelle telefonate registrate con Salvatore Buzzi poco prima del suo arresto per l’inchiesta “Mafia capitale”, abbia fatto qualche riflessione sulla violenza di quello strumento di indagine nella vita delle persone, forse ha poca memoria.
Sì, perché il magistrato Giancarlo De Cataldo non ha pagato pegno, in quell’occasione, benché i tredici contatti tra chiamate e sms mostrassero una certa confidenza (che qualche pm sbirresco avrebbe potuto qualificare come complicità) tra i due interlocutori. Ma il Csm a trazione di sinistra, benché con voto a maggioranza, lo aveva salvato dal trasferimento per incompatibilità ambientale.
Così il Manrico immemore delle trascorse vicende che non si trasformarono in sofferenze del Giancarlo, si limita a un pistolotto a pagina 78 in cui definisce le intercettazioni “croce e delizia dell’inquirente”, “strumento devastante” ma al contempo “prezioso”. E ne difende il rigore e le “regole ferree” cui sarebbero sottoposte. Chissà che cosa ci sarebbe scritto in quella pagina oggi se all’epoca le conversazioni tra Salvatore e Giancarlo fossero finite tutte in edicola (invece di esser tenute nascoste in quanto ininfluenti), magari insieme ad altre più personali. E se di conseguenza i giornali avessero costruito una bella gogna mediatica, e se poi anche i componenti della corrente di Area (tenuto conto che quelli di sinistra sono in genere i più moralisti) avessero fatto trasferire Giancarlo come un Luca (Palamara) qualsiasi. Se tutto ciò fosse accaduto, che considerazioni avrebbe svolto a pagina 78 il contino Manrico sulle intercettazioni che hanno disvelato tutte le magagne della famiglia del defunto, che era parsa fino a quel momento una vera storia del Mulino Bianco? E sarebbe spuntato, magari nella pagina successiva, un gip a mettere in discussione tutta quel voyeurismo?
Ma non solo i giudici sono totalmente assenti sulla scena processuale, manca anche un altro soggetto fondamentale, l’ avvocato. Manca in quanto protagonista, ne appaiono infatti un paio al fianco di persone che vengono sentite in quanto “informate sui fatti”. Manrico, bontà sua, pur sapendo che non si può fare, consente loro di assistere agli interrogatori, piccoli notai al fianco di persone che neppure sono indagate. Tutto contorno al luminoso ruolo del pubblico accusatore. Che riesce persino, alla fine, a mettere nel sacco la terribile Marilena Marinelli, conduttrice tv di un talk in vena di colpi giornalistici. Figure femminili che non riescono mai ad avere un profilo preciso, perché vengono mantenute costantemente sullo sfondo: come la contessa Elena, la madre di Manrico ludopatica che pare ormai vivere in un mondo tutto suo, e mogli e amanti del de cujus. E meno male che la bella Maria Giulia lo tiene un po’ sulla corda. Non si può sempre vincere, caro contino. Anche se ti piace giocare la partita da solo, senza avversari e senza arbitro.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.