Quarant’anni dall’inizio del governo Craxi I, il primo governo socialista e forse il più riformista di sempre. Ne parliamo con Gennaro Acquaviva che fu protagonista di quegli anni.

Agosto 1983, arriva il primo governo socialista. Che sapore aveva quella novità? «Guardi, dalle persone sul momento venne accolto con scarsa attenzione. Craxi non aveva vinto le elezioni del 1983. Aveva preso, sì, due punti in più di prima, ma era un giovane leader emergente e si trovò a beneficiare delle debolezze altrui: la Dc era molto divisa e finì per spianargli la strada. Il governo Spadolini (Pri) arrivato a Palazzo Chigi due anni prima aveva rotto il vincolo dell’esclusiva democristiana sul capo del governo. Si fece largo un po’ per sue capacità, innate e indiscutibili, e un po’ per quella combinazione tra caso e fato che spesso segna il destino dei grandi uomini».

Anche perché doveva togliere le castagne dal fuoco, il debito pubblico impediva di realizzare opere necessarie, teneva fermo il Paese. La Dc sperava di esporlo per bruciarlo, o perché almeno si scottasse lui al posto loro? «Governare nella prima metà degli anni Ottanta era diffcilissimo. L’Italia scricchiolava con opere pubbliche e infrastrutture inalterate dal governo Fanfani. Il debito pubblico correva, e l’in azione lo inseguiva. Allora Craxi dimostrò di che pasta era fatto. Promosse un referendum sulla scala mobile che fu incredibilmente vinto a dispetto di una propaganda populista portata avanti dal Pci e dalla Cgil. Le persone votarono come diceva Craxi, pur accettando di ricevere meno soldi in busta paga. Avevano capito il senso del referendum».

Un leader riformista che fa l’all-in in un referendum e vince. Ci vuole coraggio, oggi sarebbe difficile. «Non ci sono paragoni possibili. Quella volta l’elettorato si mostrò maturo, consapevole».

Lei, Acquaviva, che ruolo aveva all’epoca? «Ero nella segreteria del partito, proveniente da una formazione cattolica che nel 1972 era entrata nel PSI. Ero vicino ai Lombardiani, la corrente di sinistra della quale era a capo Claudio Signorile. Ero capo della segreteria di Craxi dal 1976. Per un fatto di equilibrio e certamente di stima personale, appena incaricato di formare il governo, Craxi mi telefonò e mi chiese di andare a lavorare con lui a Palazzo Chigi. Dissi subito di sì. Mi ritrovai ad essere il suo  ltro, il suo interfaccia con il mondo come Capo della Segreteria del Presidente del consiglio. Eravamo in due ad averlo seguito: io e Giuliano Amato, che fece il suo sottosegretario».

La Dc iniziò a capire con chi aveva a che fare. E la staffetta con De Mita, era stata pattuita o no? Adesso può rivelarcelo. «Ci fu una interlocuzione, mai un contratto scritto. Si misero d’accordo sul fatto che sarebbe stato Craxi a iniziare il percorso di riforme che poi De Mita avrebbe dovuto portare a termine. Due anni e mezzo ciascuno in cui Craxi avrebbe dovuto spingere in salita e De Mita avrebbe incassato al traguardo. Poi intervennero novità».

Craxi divenne il Presidente del consiglio più riformista di sempre. «Craxi entrò in sintonia con un Paese che stava cambiando pelle. C’era un’aria frizzante, voglia di impresa, di libertà, di rinnovamento profondo. Le novità furono tante: l’azione amministrativa era in asse con un’Italia in evoluzione. Ci fu il taglio della scala mobile che fece di Bettino Craxi un leader autorevole. Ci furono scelte dirimenti in politica estera. Vennero introdotte misure che premiavano la competenza e il merito nelle scelte,  no ad allora legate alle spartizioni tra partiti».

E poi c’è stato il Concordato Italia-Vaticano, al quale ha lavorato anche lei. «Una pagina di storia che ha riconciliato Stato e Chiesa in un dialogo rispettoso. E che ha riguardato anche le altre fedi religiose. Craxi, da laico, capiva bene lo spazio che dovevano avere tutte le confessioni».

Il momento più difficile? «La crisi di Sigonella. Craxi non volle darla vinta a Regan, fece schierare un battaglione di Carabinieri armati fino ai denti intorno ai marines americani che volevano farsi consegnare Abu Abbas, il dirottatore dell’Achille Lauro. Il braccio di ferro di Craxi ai danni degli americani gli costò la fiducia del piccolo Pri, piccolo ma importante alleato di governo. Fummo convocati io e Amato e rimanemmo due notti a Palazzo Chigi, a scrivere e riscrivere il discorso che Craxi avrebbe dovuto tenere alle Camere».

Cosa ricorda di personale di quell’esperienza, professore? «Ah, professore. Ecco: io non sono neanche laureato. Come Craxi. Allora, la politica era una ragione di vita che assorbiva tutto. Chi dirigeva le organizzazioni, lasciava spesso gli studi. E Antonio Ghirelli, il geniale napoletano che dirigeva L’Avanti, cosa fece quando andai a Palazzo Chigi? Prese a scrivermi tre lettere al giorno, che batteva a macchina. Tutte indirizzate, appositamente, al Professor Gennaro Acquaviva. Così tutti i commessi prima, i dirigenti poi, in ne i giornalisti iniziarono a chiamarmi Professore. Ricordo la passione, l’impegno, la competenza che circondavano Craxi. Un uomo che ha sacrificato tutto per un senso dello Stato e delle istituzioni che oggi non esiste più».

Oggi non vede eredi di Craxi? «Servono visione, capacità di immaginare il futuro. Un erede socialista, visto come hanno voluto chiudere la storia di quel partito, non c’è. Ci sono delle similitudini con un giovane leader riformista fiorentino che ha governato l’Italia quarant’anni dopo di lui. La determinazione, il coraggio e la fantasia politica sono tre doti che i due hanno in comune».

Aldo Torchiaro

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