In Italia, ormai lo sanno anche i muri, non si può fare politica della giustizia senza il consenso della magistratura. Se ci provi, paghi prezzi troppo alti, e non c’è in giro un partito o un leader politico che ne abbia davvero voglia o forza. L’idea è che, almeno, devi patteggiare con il potere giudiziario le riforme di maggiore rilievo.
Dunque la magistratura italiana è, almeno a far data dal 1992, non solo un soggetto politico, ma senza dubbio il soggetto politico più forte in tema di politica della giustizia. Non esiste un Paese al mondo dove accada, neanche lontanamente, qualcosa di simile, ma la evidenza di questa anomalia antidemocratica, di questo tracotante oltraggio al principio della separazione dei poteri, sembra non riguardarci.

E anche sul fronte, minoritario ancorché combattivo, di chi si oppone a questo scempio, si rischia un errore di prospettiva, e cioè che sia l’auspicata (e certamente fondamentale) riforma della separazione delle carriere la soluzione di questa anomalia. Che invece non basta, anche perché quella riforma non si farà mai se non si mette mano alla vera neoplasia della quale è affetto il nostro sistema istituzionale e democratico: l’occupazione militare del Ministero della Giustizia da parte di un centinaio di magistrati, messi all’uopo fuori ruolo e dunque sottratti al già carente organico dei Tribunali italiani. Il pretesto di questa assurda unicità planetaria (ripeto: si faccia un solo esempio analogo in qualunque altro Paese, democratico e non) sarebbe la necessità che la politica abbia il supporto della esperienza magistratuale nell’approntamento “tecnico” delle leggi, e nella gestione stessa del comparto giustizia.

Una esigenza che nessuno mette in dubbio, ma che ovviamente non implica, non può implicare lo sgretolamento del principio di separazione dei poteri. Altro è avvalersi di esperienze e di consulenze di alcuni magistrati di alto profilo, altro è che il potere esecutivo si consegni a quello giudiziario, a cominciare dall’appalto dei ruoli chiave (Capo di Gabinetto, capo del Legislativo, DOG, DAG, DAP) che una legge mai scritta riserva ineluttabilmente alle toghe. Il Ministro di Giustizia non è aiutato o supportato, è circondato. Cosa questo significhi in termini istituzionali, politici e democratici è di una evidenza solare.

Questo numero di PQM è dedicato ad approfondire la questione, a cominciare dalla schietta conversazione con l’ex segretario nazionale e poi Presidente di ANM, Luca Palamara, il quale, essendo diventato, per sua sventura, l’agnello sacrificale del rito purificatorio della nostra intera Magistratura, almeno ha conquistato una libertà di parola altrimenti impensabile. Se qualcuno pensa che ciò che qui egli ci racconta non sia vero, sarà nostro ospite in qualsiasi momento per argomentarlo; se invece dice la verità -come la dice certissimamente- ci chiediamo con sgomento come si possa continuare a rimanere inerti di fronte a questa vergogna.

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