L'esecutivo nascente
Il governo Draghi sarà politico, con la scelta dei ministri capiremo quanto

Siamo alle ore decisive per il Governo Draghi. Che si trova a dover affrontare un eccesso di offerta da parte della politica. Una situazione che crea fibrillazione, soprattutto per quei partiti, ai quali è rimasta solo la carta identitaria, una volta fallita quella programmatica. Ma, di fronte a un Governo istituzionale (o del Presidente, o tecnico, o come lo si voglia chiamare), i partiti non possono entrare direttamente in un negoziato “orizzontale” e porsi veti reciproci, perché caratteristica di questo tipo di governi è che non puntano alla creazione di un’alleanza politica; non rispondono, per dirla con le parole del presidente della Repubblica, ad una “formula politica”. Tanto che non si può parlare nemmeno di Große Koalition alla tedesca (che, invece, prevede la discussione di un contratto di Governo tra i contraenti).
Privati delle armi convenzionali, i partiti si attaccano ai giochi di parole, sfruttando l’ambiguità insita nella particolare natura dei governi tecnico-istituzionali, in cui non si sa bene dove collocare l’aggettivo “politico”. Ed è attraverso quel gioco sulle parole che si cerca di far entrare dalla finestra, quello che non può entrare dalla porta: la necessità di accettare il governo, senza sbiadire l’identità e perdere consenso. E così la composizione della compagine ministeriale diventa il terreno di uno scontro che non è tanto sulla ripartizione dei dicasteri, ma è l’estrema propaggine del tentativo di salvare capra e cavoli, in una morettiana pantomima intorno a un “mi si nota di più (o di meno) se ci sono ministri di partito o se ci sono solo ministri tecnici?”
A parte la circostanza formale che i ministri del Governo saranno quelli che, in base all’art. 92 della Costituzione, il presidente del Consiglio proporrà al capo dello Stato, è evidente che dietro il dibattito di queste ore si gioca una delicata partita, questa sì, politica. Cominciamo a mettere in chiaro alcune cose. Innanzitutto, in qualunque modo si sciolga il nodo della natura (politica o tecnica dei ministri) il governo istituzionale non differisce dagli altri perché “non sarebbe politico”. Basta leggere l’art. 95 della Costituzione per avvedersi che una tale affermazione è priva di fondamento. Infatti in base alla nostra Carta “il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile”. Egli, inoltre “mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri”.
Qualunque governo dunque ha un suo indirizzo politico, che consiste negli obiettivi programmatici che si prefigge e nella loro realizzazione. E ciò non foss’altro che per il fatto che in un sistema parlamentare il governo deve godere della fiducia delle Camere le quali sono le titolari (oltre che del controllo sul governo) della funzione legislativa, che è esattamente la funzione principale di attuazione dell’indirizzo politico. Insomma, il fatto che il governo istituzionale non risponda a una particolare formula politica, cioè a una particolare alleanza contratta tra i partiti, non significa che l’attività di queste istituzioni (governo e Parlamento) non sarà un’attività politica.
La sua particolarità non sta nel non essere “politico” ma nel fatto che il consenso al governo Draghi sarà un consenso “verticale” di ciascuna forza politica, che non passa per un accordo “orizzontale” con le altre. Una sistema di “convergenze parallele” per riprendere l’arcinota espressione di Aldo Moro, con l’aggiunta che il proponente dell’accordo in questo caso sarà il presidente del Consiglio che, in forza della legittimazione discendente dall’investitura diretta del Capo dello Stato, non è un primus inter pares, ma il motore programmatico della maggioranza.
Il rovescio, all’apparenza paradossale, rispetto ai governi Conte. Lì c’erano dei patti programmatici (orizzontali) tra forze politiche di cui il presidente del Consiglio, espresso dalle forze politiche stesse, si faceva garante, qui c’è un presidente del Consiglio, che non è espresso dalle forze politiche, ma il cui ruolo di direzione politica è amplificato al massimo, proprio per la particolarità propria dei governi istituzionali. Chiarito questo punto, che smaschera i tentativi di dissimulazione che qualche forza politica vorrebbe praticare, il tema del governo di ministri tecnici o di ministri politici assume un significato diverso. Intanto perché, com’è noto, ci sono stati nella storia repubblicana governi cosiddetti tecnici che hanno avuto importanti e numerosi ministri politici (Ciampi), sia governi “politici” che hanno avuto alcuni ministri tecnici (Pella nel 1953).
Non è dunque il tasso di presenza di tecnici a definire la particolarità del governo istituzionale, ma il modo in cui si compone (per “convergenze parallele”) la maggioranza che lo sostiene. La presenza o meno dei politici nella compagine di governo, allora, ha un significato diverso ed è l’indicatore del livello di responsabilità che i partiti intendono assumersi nel sostegno del governo proposto dal Presidente. Una questione che, in passato, si è posta anche per i governi politici puri. Anche nella storia della Prima e della Seconda repubblica, infatti, i partiti hanno differentemente graduato il proprio coinvolgimento nell’esperienza dei gabinetti. A volte, in caso di governi che nascevano più precari (i governi “balneari” ad esempio), lasciando che i ministri espressi dai partiti provenissero, diciamo così, prevalentemente dalle seconde file. A volte, invece, facendo entrare nella compagine gli esponenti di punta dei partiti a partire dai segretari stessi (si pensi, tanto per fare un esempio, al Governo Craxi II).
Ecco. La partita che si sta giocando in queste ore sembra proprio della stessa natura. Dietro agli sbandierati dubbi sulla natura tecnica o politica nella composizione del governo, si nasconde in realtà solo una partita politica, sulla intensità del sostegno dei partiti e sulla loro responsabilità nel raccogliere l’appello del Capo dello Stato. Di fronte alle sfide immediate, quest’ultimo, infatti, non ha richiesto un governo debole, o che faccia poca politica, ma un governo sganciato da una specifica formula. Un governo per la salute pubblica, che la maggioranza formata intorno a esso sostenga con il massimo senso di responsabilità.
Finché si possa tornare alla normalità democratica che la classe politica non è stata in grado di garantire, costringendo il Presidente alla scelta estrema. Perché quanto più solido sarà il sostegno a esso tanto prima potrà realizzare gli obiettivi del proprio mandato. E dal coraggio dei partiti di far entrare nella composizione del governo dei loro esponenti anziché delegare pilatescamente ai tecnici, potremo misurare il loro livello di responsabilità. Vedremo se essi hanno capito la gravità della situazione e se avranno il coraggio di rischiare, mettendoci la faccia, come hanno fatto il presidente della Repubblica e il presidente incaricato. Anziché continuare i puerili capricci: “Io seduto accanto a quello non ci sto”, che avrebbero fatto inorridire De Gasperi e Togliatti.
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