Dal blitz della premier Giorgia Meloni in Tunisia all’incontro a Roma con il primo ministro ad interim del governo di unità nazionale libico, Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh, il segnale è che il Nord Africa continua a essere al centro dell’agenda italiana. Un’area fondamentale e allo stesso tempo critica, dove instabilità, opportunità e terremoti geopolitici si intrecciano in modo quasi inestricabile, consegnando all’Italia e all’Europa un fronte meridionale bollente.

Da un lato vi sono aree in cui il caos è diventato un elemento quasi endemico, come in Libia. Il viaggio di Dbeibeh conferma la prospettiva che a Tripoli vi sia un governo riconosciuto dalla comunità internazionale e interlocutore privilegiato anche per Roma. Ma il recente sbarco in Italia del generale Khalifa Haftar, leader della Cirenaica, sottintende che la Libia è un Paese ancora profondamente diviso e con più figure in grado di rappresentare aree e interessi differenti. Dal controllo dei flussi migratori al settore energetico, i dossier sul tavolo dei rapporti tra Italia, Unione europea e fazioni libiche sono molti e di fondamentale importanza. Ma l’instabilità che caratterizza il Paese e la difficoltà nel costruire un percorso verso la democrazia confermano il pericolo di un focolaio continuo in cui, oltre alla violenza e a recrudescenze terroristiche, si inserisce anche il punto interrogativo della presenza della Wagner.

In Tunisia, recente tappa della visita-lampo di Meloni, la situazione non sembra destinata a un miglioramento nel breve termine. Il rapporto tra governo di Tunisi e Fondo monetario internazionale appare molto complesso. L’Italia sta provando a mediare tra le richieste del Fmi e quelle tunisine, ma il presidente Kais Saied, proprio a margine dell’incontro con Meloni, ha espresso in modo molto netto il suo “rifiuto di ogni diktat” aggiungendo, in riferimento alle riforme richieste dall’organizzazione, che “chi fornisce ricette già pronte è come un medico che scrive una ricetta prima di diagnosticare una malattia”.

Anzi, Saied, per far comprendere ancora meglio il suo no alle condizioni richieste dal Fondo per ottenere il prestito, ha detto che gli effetti di determinate riforme avrebbero “conseguenze che si potrebbero estendere a tutta la regione”, facendo così leva sui pericoli insiti in quella per molti osservatori rappresenta una vera e propria bomba a orologeria nel cuore del Mediterraneo centrale. A preoccupare è in particolare la miscela di tre fattori: la cronica instabilità libica al di là del confine sudorientale della Tunisia; la condizione economica sempre più difficile del Paese, con conseguente difficoltà anche nel gestire uno Stato efficiente; e infine, quello che continua ad accadere, spesso lontano dai riflettori mediatici, nell’enorme fascia geografica del Sahel.

La guerra civile in Sudan non è affatto terminata, con scontri che ancora oggi mietono numerose vittime e che provocano l’inevitabile fuga di migliaia di persone disperate. Si registrano nuovi scontri in alcune aree del Darfur settentrionale e nella capitale Khartoum, dove solo poche giorni fa, dieci cittadini congolesi sono rimasti uccisi in un attacco a un campus universitario. Le forze armate regolari e quelle paramilitari continuano a combattere senza sosta.

E mentre il mondo della diplomazia cerca di trovare una soluzione al conflitto in corso, il rischio concreto è che nel Paese possano crearsi tutte le condizioni per un “buco nero” fatto di violenza e crisi umanitaria. Pericoli che riguardano anche altre aree del Sahel, ovvero quella centrale e quella occidentale. Il Ciad, proprio a ridosso del confine meridionale della Libia, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha già accolto sul proprio territorio centomila persone in fuga dal Sudan, ed è probabile che si arrivi al doppio. Non a caso proprio tra Roma e Tripoli si discute anche di accordi legati al controllo delle frontiere libiche, supportate in questo anche dall’Unione Europea attraverso il Coordinamento regionale dell’Ue per il Sahel e la missione di assistenza Eubam.

Più a ovest, invece, preoccupano Niger e Mali, dove povertà, crisi e interessi strategici di potenze regionali e mondiali confluiscono provocando un perdurante stato di instabilità e, di conseguenza, di rischi per la sicurezza non solo africana ma anche italiana ed europea. Minacce che non riguardano solo il più noto aumento del traffico di esseri umani, ma anche interessi politici, economici ed energetici.