In Radici, la canzone che presta il titolo all’album del 1972, Francesco Guccini tenta di interpretare la sua anima interrogando la casa dei nonni a Pàvana, nell’Appennino tosco-emiliano, affinché questa riveda in lui i segni dei suoi antenati. Sebbene l’incomunicabilità con una «pietra antica» che forse parla, come il mondo e come il sole, in una lingua con parole troppo grandi per un solo uomo, Guccini arriva, con un animo pieno di dolcezza, alla risposta: «La casa è come un punto di memoria/ le tue radici danno la saggezza».

Nella settantacinquesima edizione del Premio Strega, anno del confinamento domiciliare, non è stata di sicuro accidentale l’insistenza narrativa, che ricorre nella dozzina finalista, sui rapporti di evoluzione che intratteniamo con le case, le nostre radici. La frammentazione in tutte le versioni di noi, che si disfano negli spazi che abitiamo, e il tentativo di ricomporre una memoria caduta come in una scatola nera, è l’edificio romanzesco imbastito dal candidato Feltrinelli, Andrea Bajani, ne Il libro delle case. Spostandosi di continuo su un asse temporale di ottant’anni, dal 1968 al 2048, Bajani attraversa le “stazioni abitative” più drammatiche della storia italiana di fine Novecento: gli anni di piombo nella «Casa del prigioniero» dove i brigatisti sequestrarono Aldo Moro, prima dell’epilogo della Renault 4 in via Caetani, che è qui una «Casa rossa con le ruote», fino all’«ultima casa di Poeta», il terreno dell’idroscalo di Ostia che accolse il corpo di un Pasolini flagellato. Il libro delle case conduce la narrazione, in maniera inconsueta, secondo una politica domestica dell’affetto: già nelle grigie planimetrie delle mappe catastali si nasconde la futura fedeltà a quel posto assegnatoci a tavola, gli spigoli delle superfici, dai quali abbiamo imparato a difenderci, divengono nel romanzo le impalcature sulle quali quotidianamente mettiamo in scena la nostra tragedia privata.

Ineludibile in tal senso il rimando all’iper-romanzo di Georges Perec, La vita istruzioni per l’uso, in cui lo scrittore dell’OuLiPo si muove in un condominio parigino come su una scacchiera, tentando di risolvere in 99 capitoli il problema scacchistico della poligrafia del cavallo. Il ritratto che ne scaturisce è una raccolta di vite soggiogate dal ricatto degli oggetti che posseggono, condotte in quell’enorme contraddizione degli spazi domiciliari, che sono nel contempo salvezza e condanna. Questi mesi di reclusione al riparo dal contagio hanno acuito la tendenza dell’uomo ad adattarsi, fino alla simbiosi, agli ambienti chiusi e sicuri che abita, una “sindrome della capanna” che in alcuni casi ha premuto sui soggetti più vulnerabili, come accade ai protagonisti di Perec, arrivando a definirsi una vera e propria “claustrofilia”. Coerentemente, nella sua indagine letteraria, Bajani ha setacciato gli angoli di quelle case che sono anche tombe: è emblematico il carapace dell’animale totem del libro, la tartaruga, che compare anche nella pregevole illustrazione di copertina di Emiliano Ponzi e che ricorda la sua fissità nel tempo a scapito della nostra esistenza transitoria; l’autore ha poi tracciato carte topografiche di limiti e allegorie che viviamo senza consapevolezza, come le recinzioni sentimentali degli anelli nuziali, che sono case d’oro fatte di promesse; i mercati delle pulci, le discariche, ovvero le case di ricordi dismessi.

Con quanta arroganza allora crediamo di essere ancora la stessa persona che ha abitato in tutti questi luoghi? La risposta che sembra suggerire Il libro delle case, con una dolcezza meno lieta di quella di Guccini, è che sui materassi degli anni universitari, nei conti corrente in rosso, ci sono tutti i confini urbani del precariato della società contemporanea e che piuttosto, in ogni trasloco, abbiamo irreversibilmente perso pezzi del nostro Io. Questa perdita giace in un’innovazione linguistica che Bajani ricerca nella discrasia tra un io narrante e un Io personaggio, quest’ultimo da ingombrante pronome personale viene connotato, come tutti i protagonisti della storia, da una riduzione al proprio status di funzione minima, comune – Io, Madre, Padre, Sorella, Nonna – che però agisce in terza persona singolare.

Non limitandosi a creare nel lettore un effetto di straniamento, Bajani circumnaviga da antropologo il soggetto narrato, mediante una presa di distanza da esso, abbandona il punto di vista partecipato dell’occhio del narratore, e affida la parola a quegli oggetti sui quali si posa la storia di una vita sotto forma di polvere. Terminato Il libro delle case, ci si guarda intorno, e quei ricordi apparentemente insignificanti assumono di colpo una luce nuova: la condensa sui vetri in una sera di festa, la malinconia incastrata sugli zerbini, gli addii depositati sulle maniglie delle nostre porte.