Il linciaggio. Gusto sopraffino dei romani del Marchese del Grillo davanti alla gogna. Rinverdito nei secoli da vampate di fanatismo politico o religioso: cosa c’è di più esaltante che ghigliottinare il nemico di classe o spedirlo in Siberia, cosa di più santo che lapidare l’infedele? Istinto liberatorio anche dei nostri tempi di democrazia matura che si avvita nel processo di piazza. Un riflesso che partì come palingenesi televisivo-giudiziaria con la saga di Mani Pulite, e poi traslocò nel più grezzo palcoscenico dello sport popolare: trovare un reo di qualcosa, riempirlo di contumelie e pretenderne l’abiura pubblica. Solo così l’indignazione collettiva si concede una tregua, necessaria per prendere di mira la prossima vittima.

I leoni da tastiera

Nell’epoca dei social – per altri versi tempio di pluralismo – le redini del linciaggio sono in mano ai leoni da tastiera. Ma non ci sono solo loro. C’è un diffuso riflesso condizionato a infierire non solo su chi sbaglia ma anche su chi compie scelte dall’esito non memorabile o esprime idee non politicamente corrette. Qualcuno per fortuna se la ride. “Se avessimo scippato due vecchiette, ci avrebbero insultato di meno”, dice Fiorello dopo il diluvio per il ballo di John Travolta in sneakers. Ma Fiorello è un comico. E se l’esperta Chiara Ferragni, pizzicata sul pandoro, finge di lacrimare in diretta, Giovanna Pedretti, la ristoratrice aggredita sul web perché accusata di false recensioni, si getta nel fiume Lambro.

L’umiliazione dell’imputato

Il linciaggio non ha bisogno necessariamente di sangue. Si crogiola nel trash, quindi gli basta l’umiliazione dell’imputato. Un tempo c’era un programma tv, “Paperissima”, dove sugli errori altrui ci si divertiva. Oggi si esonera l’allenatore del Lecce per “tentato colpo di testa” all’avversario, anche se lui nega e si copre il capo di cenere. E si inveisce contro l’arbitro di Lazio-Milan al punto che la moglie è costretta a dichiarare che “lontano dalle telecamere c’è un uomo, i sacrifici, l’impegno, la dedizione, le rinunce, i sogni, i successi, le sconfitte”. Il redattore di Televideo scambia il protagonista del film “Io capitano” per il famigerato Schettino? Sarebbe un errore da matita blu, ma non da odio collettivo. L’attore Ceccherini dice che “l’Oscar lo vinceranno gli ebrei” e diventa in un lampo un capo nazista, e lo stesso capita a Sabrina Ferilli per aver solo alluso: “So perché quel film vincerà”. La censura della folla urlante non risparmia neppure le più pacate idee. Il generale Vannacci è razzista perché sostiene che i tratti somatici della campionessa di pallavolo nera non sono tipicamente italiani. Liliana Segre è complice dello sterminio di bambini perché sostiene che “genocidio” è parola inappropriata per definire ciò che sta accadendo a Gaza. E il giornalista David Parenzo, che di spada censoria contro Vannacci ferisce, della stessa spada perisce: gli viene impedito dai contestatori di parlare all’università in quanto “ebreo, fascista ecc ecc”.

Mentre ci godiamo i frutti prelibati di tre decenni di demagogia spinta, dove le promesse più comuni erano abolire la povertà, la corruzione e l’immigrazione clandestina, c’è da chiedersi se a questo punto non ci conviene organizzarci meglio seguendo le eccellenze estere, e dotarci anche noi di una bella Polizia Morale.

Sergio Talamo

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