Le condizioni di lavoro
Il Lobito Corridor lancia lo sviluppo africano, ma nelle miniere si muore. Quei diritti umani che vengono ignorati
Il mese scorso, al G7 di Borgo Egnazia, si è discusso di vari temi africani legati allo sviluppo e alla crescita di quel Continente. Un particolare rilievo è stato dedicato alla iniziativa denominata Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGII). Orientata ad accrescere gli investimenti pubblici e privati nelle infrastrutture dei paesi a medio e basso reddito (tra cui molti Stati africani), rappresenta la risposta degli USA e dell’Occidente alla One Belt, One Road cinese, e dovrebbe mobilitare finanziamenti pari a circa 600 miliardi di dollari entro il 2027. I progetti infrastrutturali della PGII, in Africa e nel resto del mondo, dovrebbero essere caratterizzati da sostenibilità, inclusività, resilienza, promozione dell’eguaglianza di genere, orientati alla lotta al cambiamento climatico e a una transizione energetica rispettosa dell’ambiente e delle persone.
Il corridoio di Lobito
In tale contesto i grandi del G7 hanno dichiarato il loro sostegno alla realizzazione del cosiddetto Corridoio di Lobito, una linea ferroviaria di circa 1.300 chilometri tra Angola, Repubblica Democratica del Congo e Zambia; costruita in buona parte nel secolo scorso, fu quasi subito inefficiente a causa dei danni provocati all’epoca dalla sanguinosa guerra civile angolana fra MPLA e UNITA. L’ Italia ha annunciato, anche in qualità di presidente del G7, di voler destinare alla costruzione del Lobito Corridor ben 320 milioni di euro, una cifra mai eguagliata finora per un singolo progetto in Africa.
La linea ferroviaria sarà realizzata da un consorzio di imprese e banche europee, ma vedrà fra i suoi finanziatori anche la African Development Bank, cioè la Banca di Sviluppo africana con sede ad Abidjan, in Costa d’ Avorio. Sulla potenziale rilevanza strategica del Corridoio di Lobito non ci sono dubbi. La ferrovia dovrebbe infatti consentire il collegamento col porto angolano di Lobito dei maggiori centri minerari della Repubblica Democratica del Congo (Kolwezi, Lubumbashi), e dello Zambia (Chingola, Ndola), dove si producono milioni di tonnellate dei materiali rari come cobalto, nickel, grafite, litio e manganese, indispensabili per costruire le batterie, e favorire quindi il processo verso la transizione energetica de-carbonizzata. Tutto apparentemente in linea con i paramenti di sostenibilità e rispetto del clima, posti a base della Partnership for Global Infrastructure and Investment, e della narrativa dominante. O quasi.
Miniere improvvisate
Infatti non sono stati finora approntati dai paesi occidentali metodi per contrastare le terribili condizioni di lavoro di quegli africani, per lo più giovani e bambini, impegnati nell’estrazione dei citati materiali strategici, in miniere improvvisate dove mancano i più elementari requisiti di salubrità e sicurezza, nell’assenza di legislazioni a protezione dei minatori, quasi tutti irregolari. Human Right Watch, che con Amnesty International e pochi altri gruppi di pressione si concentra ancora sul rispetto dei diritti umani in Africa, in un recente rapporto rileva che centinaia di lavoratori delle miniere africane muoiono per crolli, malattie polmonari, avvelenamenti, ferite non curate, esalazioni letali.
Il comitato
Nell’aprile scorso il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres, in un discorso sul tema delle terre rare, ha sottolineato che non si può pensare alla transizione energetica in Africa introducendo “un sistema di sfruttamento, illegalità e immoralità nell’industria estrattiva del Continente”. In ambito Nazioni Unite è stato da poco creato un “Panel sui minerali critici per la transizione energetica”, composto da politici, ONG e rappresentanti delle Agenzie dell’Onu; ma questo comitato ha solo un ruolo consultivo, mentre non esiste al momento un organismo di monitoraggio e sanzione delle numerose irregolarità, corruzione e malaffare di un settore dalla crescita praticamente illimitata. Men che meno tali controlli esistono nell’ambito delle miniere sotto controllo cinese e russo, dove impera la regola neo-coloniale dell’accaparramento sfrenato e del disinteresse più totale per i principi etici.
Princìpi di buon governo
In sintesi: è vero che il finanziamento di infrastrutture fondamentali come il Lobito Corridor può aiutare la crescita economica dei paesi africani e giovare a una transizione energetica pulita, ma è necessaria l’introduzione di princìpi di “buon governo” per ciò che concerne tutto il processo dell’esportazione dei minerali, e soprattutto la tutela dei lavoratori, la libertà dallo sfruttamento, dall’oppressione e da pratiche vessatorie nelle miniere africane. Dopo tre anni di negoziati, nel 2003 si diede vita a un’intesa vincolante fra i paesi produttori e gli acquirenti internazionali nel non meno controverso settore dei diamanti, il Kimberley Process (dal nome di una città sudafricana): prevede che non vengano commercializzati i diamanti “insanguinati”, cioè che causino o alimentino guerre civili e tra Stati, o pratiche illecite e immorali.
Può essere di esempio anche per le terre rare, anche se il Kimberley Process ha tuttora i suoi difetti. Il mondo è molto cambiato da allora, e il diritto internazionale e la tutela dei diritti umani oggi non godono affatto di ottima salute, specie nel Continente africano, dove hanno di gran lunga la meglio gli interessi economico-finanziari.
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