Il libro di Ricolfi e Mastrocola
Il manifesto del libero pensiero, chi sono i veri nemici del politically correct
Siamo davvero convinti che il nemico principale – come una volta si diceva – sia la (pur dolciastra) retorica buonista e il (pur intimidatorio) politically correct? La mia stima, e simpatia, per Paola Mastrocola e Luca Ricolfi (la prima scrisse un coraggioso, onesto articolo che si sforzava di capire le ragioni della paura “popolare” dei migranti) non mi impedisce di formulare alcune considerazioni critiche sul loro Manifesto del libero pensiero. Dico subito che l’intenzione del libretto è meritoria e che la denuncia di un clima opprimente di censura, e autocensura, che riguarda la lingua, la parola “imbavagliata” e “sorvegliata”, mi appare necessaria. Ma l’assimilazione di tale clima alla “gigantesca astronave aliena “ che in Independence day oscurava il cielo e copriva intere città americane non mi persuade.
È probabile che negli anni ‘70 si puntava a cambiare le parole perché non si voleva né poteva cambiare le cose, con esiti anche discutibili: la parola “negro”, usata comunemente da Pavese e Calvino, venne messa al bando. Da allora si cominciò a rinominare intere categorie: dunque a chiamare gli handicappati diversamente abili, le donne di servizio collaboratrici domestiche (che poi facevano e fanno tutto loro, altro che collaborare!), i becchini operatori cimiteriali, gli spazzini operatori ecologici, i ciechi non vedenti… In quegli anni Natalia Ginzburg volle condannare l’ipocrisia di questo uso del linguaggio, il disprezzo che implica verso il parlare della gente comune, che non appartiene all’élite che governa il discorso pubblico. Tanto che, secondo i due autori, nel XXI il politicamente corretto è diventato l’ideologia dell’establishment, con la inevitabile equazione sinistra=establishment.
Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: tutti ultrapermalosi e inclini a pensarsi nel paradigma della vittima (bisognosi di tutela), fino a prescrizioni linguistiche involontariamente comiche (applicate a oggetti inanimati: non si deve più dire “jack maschile” o “jack femminile”) e fino alla “cultura della cancellazione” che potrebbe cancellare perfino Dante, non conforme agli attuali standard morali .Inoltre: chi decide quali sono le parole “giuste”?
Passo ora al mio dissenso. Il pericolo che corre la nostra società non mi pare la promozione incessante del bene, benché questa sia divenuta una retorica che copre spesso interessi corporativi. Come ci sono una Costituzione formale e una materiale, così c’è il buonismo formale, esibito magari strumentalmente dall’establishment (anzi da una parte sola dell’establishment), e il “cattivismo” materiale che continua a dominare il senso comune, l’immaginario collettivo e la chiacchiera da bar.
Non occorre particolare immaginazione sociologica per vederlo. Basterebbe ricordare i modi di dire e i tic linguistici – specchio veridico della mentalità – degli ultimi due decenni: “E’ un problema tuo”, “Non me ne può fregare di meno”, “Sti cazzi”, “Vaffa”, etc. Vi sembrano modi buonisti? Basta poi fare zapping sui nostri talk, pomeridiani e serali: l’impressione è che in questo Paese nessuno si vergogna più di niente. Sono state sdoganate le battute più oscene, aggressive, oltraggiose. Almeno l’ipocrisia conteneva – come sappiamo dai classici – un omaggio del vizio alla virtù. Oggi invece esistono solo omaggi del vizio al vizio stesso! Un Paese intero amputato del super-io. Una popolazione finalmente “liberata”, incapace di qualsiasi controllo critico sulle proprie pulsioni. Da cosa è formato oggi il senso comune? Elenco un po’ alla rinfusa. Guai agli “sfigati” (parola-tormentone di questi anni), ai perdenti, a chi non riesce a “stare sul pezzo”. Ammirazione per i furbi, per i potenti, per chi ce l’ha fatta, anche con mezzi illeciti (siamo il paese di Machiavelli), tanto siamo tutti corrotti e il più pulito c’ha la rogna.
L’idea che i ricchi hanno più talento, più voglia di lavorare mentre i poveri sono colpevoli della loro condizione (tutt’al contrario che nel Medioevo: per Dante non solo l’arricchimento personale è del tutto casuale ma i ricchi sono in genere i più malvagi). Di qui il disprezzo per chi guadagna poco (i genitori benestanti di un liceo romano consolavano i loro figli bocciati dicendo loro che tanto gli insegnanti “so’ dei morti de fame, con quegli stipendi”). La convinzione che è più saggio farsi i fatti propri (il celebre “I care” sarebbe stato inviso a don Abbondio). La complicità cercata quasi sempre sulla volgarità. La esibizione sfrontata dei consumi esclusivi. Una certa perversa equazione tra cattiveria e intelligenza ( a pensar male degli altri ci si coglie, no? e invece il punto è che non ci si coglie quasi mai!). Insomma, a me pare che nessuna dittatura delle parole imbavagliate, nessuna “furia del politicamente corretto” riesca a incidere su questo fondo granitico della mentalità collettiva, su questo sottosuolo condiviso di idee ricevute e umori irriflessi (non lo chiamo “eterno fascismo” degli italiani solo perché potrebbe evocare un tratto ideologico e invece è più antropologico). Non si tratta tanto di una parte dei nostri concittadini, ma di qualcosa che riguarda ciascuno di noi, almeno in parte.
Infine: Mastrocola e Ricolfi – che, anche loro!, si sentono “vittime” di qualcosa (appunto il “clima opprimente, etc.”)- ritengono non censurabile l’espressione “afflitto da una disabilità”. Ora, non intendo negare che una disabilità può affliggere chi ne è portatore. Ma appunto: “può” affliggere, così come “può” stimolare altre abilità, altre capacità, etc. Questa espressione mi ricorda un modo di dire – questo sì veramente odioso – adoperato universalmente negli anni ‘60. Quando si vedeva passare un tale su una sedia a rotelle si diceva: “Quell’infelice…”. Una espressione che suona come condanna senz’appello e che rivela una prevaricazione, una singolare prepotenza morale (dando inoltre per implicito che chi la pronuncia si sente chissà perché al riparo dall’infelicità).
Il politically correct, con i suoi eccessi e benché contenga dei rischi per la libertà d’espressione, è comunque la degenerazione o il fraintendimento di un principio giusto (di rispetto per l’altro, per la sua diversità e difformità). Mentre dire “quell’infelice” quando passa un disabile non è la degenerazione di nulla ma solo pura barbarie.
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