Comunicazione politica
Il mantra dell’antifascismo, la comfort zone della sinistra: evocare un fantasma di cento anni fa e non guardare al futuro
Non ha alcun potenziale espansivo: non riesce a persuadere cittadini-elettori indecisi. Definire la propria identità evocando fantasmi di cento anni fa, a cui non crede nessuno, è forse il sintomo più evidente della difficoltà di risanare il rapporto tra sinistra e popolo
Un tempo era facile distinguere le posizioni di destra e di sinistra su quasi tutti i temi chiave della politica. C’erano le ideologie a indicare la via e queste funzionavano come bussole, ma anche come binari, dai quali era pressoché impossibile deviare, se non deragliando. Cosa distingue oggi, nell’era post-ideologica, destra e sinistra in politica economica? O in politica internazionale? Chi è più statalista o più liberista? Chi è più o meno atlantista? Difficile dirlo. Ci sono differenze sostanziali anche all’interno delle coalizioni, anche guardando solo all’Italia. L’unica grande linea di frattura rimasta in campo sembra essere quella dei valori, un confine culturale che delinea due grandi famiglie: conservatori e progressisti.
Ed è su quel terreno, infatti, che si giocano le partite più accese e divisive: il politicamente corretto, alcune tematiche LGBTQ+, il femminismo, il multiculturalismo, l’ambientalismo (quest’ultimo un po’ meno centrale in Italia). Non a caso sono anche i temi che producono spesso espressioni in grado di evocare pregiudizi positivi o negativi verso una specifica policy, attivando precisi frame mentali: la maternità surrogata diventa “utero in affitto” a destra e “gestazione per altri” a sinistra. I “Centri di Permanenza Temporanea” della sinistra diventano “Centri per il Rimpatrio” per la destra, e così via. La comunicazione è un’attività fortemente simbolica ed evocativa. Per dirla con Lacan, “la funzione del linguaggio non è quella di informare, ma di evocare”. Ed è in questa scia che si colloca il mantra dell’antifascismo che si affaccia con prepotenza nel dibattito pubblico ciclicamente e che plasma ogni anno il menu mediatico dei giorni limitrofi al 25 aprile. Specie quando al governo c’è la destra (e da quando esiste una destra di governo), ça va sans dire. Cosa non convince, in termini di efficacia della comunicazione, di questo mantra? Proviamo ad elencarlo per punti.
Dichiararsi antifascista equivale a iscriversi al Pd
L’antifascismo è presentato come un concetto unificante e fondativo della Repubblica, ma è diventato sempre più un concetto di parte. Non a caso, le continue richieste a Giorgia Meloni di dichiararsi “antifascista” provengono sempre e solo da una precisa cultura politica: da certi partiti, da certi intellettuali e da certi organi di stampa. Oggi dichiararsi antifascista praticamente equivale a iscriversi al PD o ad AVS, o abbonarsi a Repubblica. Difficile, dunque, che qualcuno di destra lo faccia, utilizzando esattamente quella formula. Per questa, ma anche per altre ragioni. La prima delle quali, ben nota, è che a “impossessarsi” della narrazione antifascista in Italia sono stati proprio coloro che per decenni hanno guardato a un regime totalitario come modello. Ecco perché nelle famose “Tesi di Fiuggi” della nascente Alleanza Nazionale si parlava di “sciogliere tutti i fasci”, quelli di destra e quelli di sinistra. Ognuno aveva la sua storia con cui fare i conti.
La “Tesi di Fiuggi”
È un tema, sulla carta, superato da 30 anni. Proprio nella “svolta di Fiuggi”, le tesi approvate dal congresso di Alleanza Nazionale recitavano: “Se è infatti giusto chiedere alla Destra italiana di affermare senza reticenza che l’antifascismo fu il momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato…”. Capitolo chiuso? Pare proprio di no. Anzi, è più caldo di allora nonostante le innumerevoli prese di distanza dal fascismo negli ultimi trenta anni, da Fini a Meloni. Da ultimo, ricordo la lettera al Corriere della Sera del 25 aprile scorso, a firma del Presidente del Consiglio: “Il frutto fondamentale del 25 aprile è stato, e rimane senza dubbio, l’affermazione dei valori democratici, che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo scolpiti nella Costituzione repubblicana”. Il perché a sinistra “non basta mai” è implicito nel punto 3.
La sindrome di superiorità
La politica è uno degli ambiti principali in cui l’essere umano sfoggia tutto il suo gruppismo e la sua omofilia (la tendenza a far parte di gruppi di persone che la pensano come noi), con tutti i relativi bias (errori sistematici di ragionamento) e pregiudizi possibili e immaginabili. Ciò rende sicuramente il tema dell’antifascismo utile a rinsaldare le truppe di sinistra, a mobilitare i tifosi di una parte. Nello stesso tempo, però, finisce per rinsaldare anche le truppe altrui e soprattutto non ha alcun potenziale espansivo: non è attrattivo e non riesce a persuadere cittadini-elettori indecisi o potenziali. Per di più, è sempre presentato come uno scontro tra “buoni” e “cattivi”. E questa “dicotomia morale” è frequentemente sfociata in una “sindrome di superiorità” che ha fatto e continua a far male alla sinistra italiana. Di tanto in tanto, sarebbe bene rileggere Perché siamo antipatici di Luca Ricolfi che chiude parlando di quel complesso dei migliori che “ha prodotto nella sinistra la distanza siderale che ormai la separa dal comune sentire”.
La comfort zone
Proprio il comune sentire ci dice che il pericolo fascista per gli italiani non esiste. Qualcuno davvero crede che il 26% degli italiani nel 2022 abbia votato Fratelli d’Italia perché sogna un ritorno del fascismo? Quello scenario e quel “sentire” sono fuori menu, e non da oggi. La “paura”, ieri di Berlusconi e oggi di Meloni, non ha prodotto grandi successi a sinistra, né – soprattutto – ha prodotto alcun ritorno al fascismo. Non ci crede nessuno, probabilmente neanche chi usa questa “clava” solo per rintanarsi in una comfort zone. E d’altronde, anche la recentissima polemica sul caso “Scurati” non pare abbia inciso minimamente sul voto lucano che era alle porte, anzi: Fratelli d’Italia ha preso mille voti in più e il PD mille in meno, rispetto alle politiche di due anni fa.
Gli elettori hanno bisogno di un’offerta politica che guardi al futuro, non al passato. Ad esempio, nessuno vince le elezioni solo elencando e rivendicando le cose fatte, perché nessuno vota in un’ottica puramente retrospettiva. Le elezioni si vincono sempre sulla base di una promessa. Per l’elettore, “il passato è passato”. E se la promessa futura è “liberiamo l’Italia dai fascisti”, non può funzionare. Perché i fascisti alle porte non ci sono, se non appunto nell’immaginario di una precisa (e minoritaria) cultura politica.
“Noi contro loro”
Questi 5 punti ci dicono che insistere sulla retorica dell’antifascismo è una tattica inattuale e inutile. Anzi, se uno dei problemi della classe dirigente di sinistra è il suo essere percepita come “antipatica” e tendenzialmente scollegata dal senso comune – per citare Ricolfi – rischia di essere addirittura dannosa per chi la pratica, perché può finire per rafforzare quel percepito. La mente politica è una mente emotiva – dice lo psicologo statunitense Drew Westen – e ciò implica la necessità di attivare un “noi contro loro” e di avere uno o più “nemici pubblici” contro cui dirigere le emozioni del proprio popolo e rinsaldarlo come un sol uomo. In un’epoca di polarizzazione crescente può essere ancor più funzionale attivare questa logica binaria (che in realtà è una costante del nostro modo di ragionare). Ma se il nemico è di un secolo fa e lì è relegato dalla gran parte degli italiani, vale ciò che scrisse Pasolini già cinquanta anni fa, nel 1974: “Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più… Ecco perché buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È, insomma, un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo”.
Di questi tempi – forse più a destra che a sinistra – è tornato di gran moda Antonio Gramsci, soprattutto per via del concetto di “egemonia culturale”. Ma se a destra si guarda con interesse a Gramsci, ritengo che a sinistra farebbero bene a rileggersi quel Pasolini che individuava nel “nuovo fascismo” la società dei consumi. Perché proprio da lì (e dall’abbraccio della globalizzazione e delle virtù del mercato come ingredienti di un progresso privo di lati oscuri) deriva parecchio di quel “pensiero unico” e omologante che finisce per renderli antipatici e sempre più distanti dai ceti popolari e dal senso comune, in quella trasformazione degli ultimi decenni ben descritta da Luca Ricolfi nel libro La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra: “Grazie agli immigrati, e alle battaglie a difesa delle minoranze LGBT, la sinistra può continuare a eludere la domanda fondamentale: perché i ceti popolari le hanno voltato le spalle, e preferiscono votare per i partiti di destra?”. Mi sembra che quella sia la domanda più importante, molto più politica che di comunicazione. La comunicazione è rilevante, ma è sempre conseguente all’identità politica. Definire la propria identità evocando fantasmi di cento anni fa, a cui non crede nessuno, è forse il sintomo più evidente della difficoltà di risanare il rapporto tra sinistra e popolo. Ma forse anche la ragione per cui quest’ultima si rifugia nella comfort zone dell’antifascismo.
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