Gli attacchi con cui Regno Unito e Stati Uniti hanno colpito le basi degli Houthi in Yemen apparivano come avvertimenti decisivi rivolti alla milizia sciita per interrompere il fuoco sul Mar Rosso. Invece, nonostante le decine di obiettivi centrati dalle forze britanniche e statunitensi, gli Houthi non hanno cessato di destabilizzare il quadrante. Ieri il Comando Centrale degli Stati Uniti ha comunicato su X che le unità della flotta Usa avevano intercettato un missile da crociera partito dalle coste yemenite e diretto contro un’unità della Navy. Dopo alcune ore sono arrivate le dichiarazioni di fuoco di Ali al-Qahoum, uomo dell’ufficio politico degli Houthi, che in un’intervista alla stampa iraniana si è rivolto a Washington dicendo che “lo Yemen si trasformerà nel cimitero degli americani” e che le fore yemenite e il loro leader sono “completamente preparati a entrare in una guerra diretta e totale con il Grande Satana (gli Stati Uniti, n.d.r.) per difendere la Palestina”. Successivamente la United Kingdom Marine Trade Operations ha lanciato l’allarme su una nave “colpita dall’alto da un missile”: nave che la compagnia britannica Ambrey aveva identificato in un cargo di proprietà degli Stati Uniti ma battente bandiera delle Isole Marshall, la Eagle Gibraltar.

Secondo gli analisti britannici, “l’attacco ha preso di mira interessi statunitensi in risposta agli attacchi militari statunitensi contro le posizioni militari Houthi nello Yemen”. E questo indicherebbe che l’episodio a largo delle coste yemenite è la prima testimonianza di quella vendetta che era stata giurata dalle milizie filoiraniane dopo i bombardamenti organizzati dalle forze angloamericane. Fonti arabe hanno poi parlato nelle stesse ore di un nuovo raid contro il porto di Hodeida, controllato sempre dagli Houthi. Ulteriore elemento che comprova l’innalzamento del livello di tensione nello Yemen, tra attacchi delle milizie sciite e risposte sempre più frequenti delle unità impegnate nell’alleanza a guida Usa. La preoccupazione per la libertà di navigazione si fa ogni giorno più forte e lo hanno confermato anche le indicazioni arrivate dal Qatar, uno dei principali produttori di gas della regione. Ieri Doha ha annunciato lo stop al trasporto di gas naturale liquefatto attraverso lo stretto di Bab al-Mandeb: ordine arrivato per i timori legati all’escalation al largo dello Yemen. E secondo i dati ottenuti da al Arabiya, il blocco alla navigazione avrebbe già coinvolto cinque navi per il trasporto del gnl qatariota, di cui tre ferme dallo scorso venerdì al largo delle coste dell’Oman, una bloccata nel Mar Rosso e l’altra ferma vicino al Canale di Suez ma nel Mediterraneo.

Non sono stati segnalati, almeno fino a oggi, attacchi contro navi che trasportano gas, né contro navi gestite da compagnie legate al Qatar. Tuttavia l’indicazione fornita dalla potenza energetica del Golfo fa comprendere quali siano i rischi anche per i Paesi produttori dell’area, oltre che per il mercato energetico. Al momento l’impatto della crisi del Mar Rosso non è stato ancora molto rilevante sull’economia globale. La produzione del petrolio e del gas non è stata intaccata e anche i prezzi hanno osservato una certa stabilità, senza particolari fluttuazioni dovute all’escalation tra Houthi e forze occidentali. Ma questo non deve far credere che il conflitto non sia privo di conseguenze. E la scelta del Qatar è un primo esempio del pericolo insito nell’incendio divampato lungo la rotta che unisce Oceano Indiano e Mediterraneo. A certificare i problemi legati al trasporto navale sono anche i dati forniti da Lloydslist che, come riportato da Agi, hanno rivelato che nell’ultima settimana del 2023 il traffico è calato del 20 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, mentre tra gennaio del 2024 e lo stesso mese del 2023 si assiste a un calo del 90 per cento del numero di portacontainer che hanno solcato Bab el Mandeb. Allo stato attuale la risposta di molte compagnie di navigazione è stata quella di interrompere il flusso di navi attraverso quelle acque bollenti. Ma il passaggio per Capo di Buona Speranza aumenta sensibilmente i tempi di navigazione nonché i costi del trasporto per il carburante e delle assicurazioni, mentre molti osservatori mettono in guardia sull’aumento dei prezzi al consumo in caso di allungamento del conflitto.

La questione, così vicina al Mediterraneo, non può non riguardare anche l’Europa e in particolare anche l’Italia. Roma ha mostrato sostegno politico nei riguardi dell’operazione multinazionale pensata dal Pentagono, ma per quanto riguarda l’intervento diretto nelle acque del Mar Rosso l’obiettivo sembra ormai quello di puntare su un’azione congiunta dell’Unione europea. Ieri a questo proposito c’è stata una riunione tra Antonio Tajani, Guido Crosetto e Alfredo Mantovano in vista del Consiglio Affari Europei del 22 gennaio. E in quell’occasione, sul tavolo dei Ventisette si discuterà proprio dell’ipotesi di una forza navale parallela ma non incardinata all’operazione Prosperity Guardian guidata da Washington. Idea su cui, al momento, non sono state fornite informazioni dettagliate. E ora bisognerà attendere i risultati delle discussioni, così come l’evoluzione della situazione sul campo alla luce dell’escalation yemenita e del conflitto nella Striscia di Gaza, epicentro della crisi regionale. L’arma psicologica usata da Hamas con il video dei tre ostaggi – di cui due dati per morti sotto le bombe israeliane – ha evidenziato ancora una volta l’urgenza della liberazione dei cittadini israeliani nelle mani dei terroristi. Mentre l’attentato a Raanana, che ha provocato la morte di una donna e il ferimento di altre 13 persone, sottolinea che la guerra tra Israele e Hamas è ancora lontana dalla sua risoluzione. Le Israel defense forces hanno ritirato un’altra divisione dalla Striscia, ma per molti analisti non implica necessariamente una riduzione dell’impegno militare nell’exclave palestinese. E le Nazioni Unite hanno lanciato un nuovo allarme sugli aiuti umanitari.