La settimana più pazza che l’economia abbia vissuto negli ultimi trent’anni. Non c’è altro modo per definire ciò che è successo dallo scorso 5 aprile, il “Liberation Day” quando Donald Trump ha annunciato pesanti dazi reciproci nei confronti di tutti i Paesi che hanno un interscambio commerciale con gli Stati Uniti.

Dopo una brevissima fase di assestamento, i mercati finanziari di mezzo mondo hanno cominciato a segnare perdite che non si registravano almeno dalla crisi dei mutui subprime e del fallimento di Lehman Brothers. Da qualche ora, però, ci sono due domande che attirano l’attenzione di molti, soprattutto degli operatori e degli investitori finanziari: chi ha guadagnato dal rally delle Borse? Ancora: cosa ha convinto The Donald a ritrattare sui dazi?

Chi ha guadagnato

Il primo sasso nello stagno dei dubbi lo ha lanciato un importante uomo d’affari americano, nonché sostenitore Maga, “Make American Great Again”, della prima ora: Bill Ackman. Non stiamo parlando di un complottista che vive sui social, ma di uno dei più importanti gestori di hedge fund americani e quindi del mondo. In un lungo post sulla piattaforma X, Ackman accusa apertamente il segretario al commercio dell’Amministrazione a stelle e strisce, Howard Lutnik: “Mentre i mercati vanno a fondo, Lutnik non muove un dito perché lui è tra quelli che ci guadagnano”, ha scritto martedì 8 aprile. Sono molti coloro che puntano il dito al bersaglio grosso, proprio Trump, reo di aver “manipolato” il mercato e di averci guadagnato insieme alle aziende del suo gruppo.

Ipotesi aggiotaggio o insider trading

Molti evocano il reato di aggiotaggio o di insider trading. Entrambi sono reati finanziari. Il primo si configura quando qualcuno diffonde notizie false o ingannevoli sul mercato, ad esempio su un’azienda o un titolo, per far salire o scendere i prezzi e guadagnarci. L’insider trading, invece, si realizza nel momento in cui una persona usa informazioni riservate, quindi non ancora pubbliche, per comprare o vendere titoli e trarne vantaggio prima che il mercato ne venga a conoscenza. Ci sentiamo di escludere a priori il primo reato. Nel fiume di dichiarazioni che l’inquilino della Casa Bianca ha fatto dal 5 aprile, non si ravvedono gli estremi della falsità. Trump ha portato avanti una politica economica, poi rivelatasi autolesionista, e l’ha difesa in tutti i modi.

“Buon giorno per comprare”

Per quanto riguarda l’insider trading, qualche dubbio sovviene. Basti pensare che nella giornata di mercoledì 7 aprile, tre ore prima della dichiarazione sulla moratoria dei dazi, il presidente ha scritto sulla sua piattaforma social, Truth: “Oggi è un buon giorno per comprare”. I mercati europei, in quel momento, erano ancora aperti. Alla chiusura di questi, poi, Trump ha lanciato le dichiarazioni sulle tariffe che hanno fatto volare la Borsa di New York con guadagni fino al 12 per cento. Trump voleva dare un segnale al mercato o semplicemente voleva sostenere il sistema finanziario americano? La risposta dovrebbe arrivare dalla Sec, Securities and Exchange Commission, l’equivalente alla nostra Consob, che ha il potere per indagare su condotte del mercato non regolari. C’è da scommetterci, però, che nessuno aprirà un’inchiesta. Anche perché i vertici della commissione sono di nomina presidenziale. E si sa, The Donald non è tenero con chi lo mette nel mirino. Non è pellegrina l’idea che qualcuno abbia guadagnato molto da questa situazione. D’altronde, basta citare Warren Buffet, l’oracolo di Omaha, il quale dice spesso: “Nel breve termine il mercato è una macchina che conta voti, nel lungo termine è una bilancia”.

Debito

Più complesso è rispondere alla seconda domanda: cosa ha convinto Trump a rinviare i dazi? Sebbene l’Amministrazione mantenga il punto dicendo che è una “strategia” pensata dall’inizio in questo modo, la realtà è molto diversa. Nella notte tra martedì 8 e mercoledì 9 aprile i mercati americani si sono trovati davanti a un inedito: l’asta dei tresaury bond a trent’anni, i titoli di Stato a lunga scadenza, ha avuto molti problemi ad essere piazzata. Ai pochi compratori si è unito poi l’aumento del rendimento fino al 5 per cento, per poi ripiegare intorno al 4,7 per cento. Un segnale chiaro: il mercato stava scommettendo “contro” gli Usa. E chi è tra i più importanti detentori del debito pubblico americano? La Cina. Pechino ha nei suoi portafogli oltre 800 miliardi di dollari dell’enorme debito a stelle e strisce che ammonta ad oltre 36mila miliardi di dollari. Cosa accadrebbe se domani i cinesi non rinnovassero l’impegno del debito americano? O se inondasse improvvisamente il mercato dei titoli di stato statunitensi? Risposte che speriamo di non conoscere: sarebbe l’inizio di qualcosa di davvero inedito.

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