Il report di Mario Draghi sulla competitività dell’Unione europea ha generato un intenso dibattito, come è ovvio che fosse. Pur descrivendo accuratamente i rischi che l’Europa corre se non intraprende riforme strutturali significative, il messaggio rischia tuttavia di rimanere inefficace per vari motivi, sia di natura politica che economico-finanziaria. Il punto di partenza di Draghi è chiaro: l’Ue si trova in una posizione fragile, tra crisi energetica, tensioni geopolitiche, bassa crescita economica e un contesto globale sempre più competitivo. Tra l’altro – proprio mentre ieri l’ex presidente del Consiglio presentava il suo report – Glencore in Italia confermava la decisione di fermare una parte degli impianti di zinco di Portovesme, e l’Ast Terni annunciava lo stop di uno dei due forni elettrici. È bastato insomma che il gas tornasse in area €35-40/MWh per mettere in difficoltà gli energivori.

Che l’attuale modello economico e politico dell’Unione europea sia insostenibile se non si attuano cambiamenti radicali, insomma, non è certo un’esagerazione. Secondo Draghi per mitigare tali rischi occorrono investimenti annuali aggiuntivi pari al 5% del PIL dell’Ue (circa 800 miliardi di euro). Questa analisi è difficile da contestare: la dipendenza dell’Europa dal gas russo (Mosca è tornata a essere il principale fornitore europeo superando gli Usa), uno zelante Green Deal, la mancanza di un’industria tecnologica competitiva a livello globale e le sfide legate alla Difesa e alla sicurezza sono problemi noti da anni a qualsiasi imprenditore. Pertanto l’ex numero uno della Bce ha certamente ragione nel sottolineare che l’Ue debba sviluppare una strategia coerente per evitare di perdere la sua rilevanza geopolitica ed economica.

La resistenza politica

Tuttavia, pur descrivendo la situazione in modo preciso, la sua proposta appare inefficace per vari motivi. Uno dei limiti principali del report di Draghi è la mancanza di realismo politico. Suggerisce una trasformazione radicale delle politiche europee, tra cui la creazione di “campioni pan-europei” per competere su scala globale e una drastica riduzione della burocrazia. Ma l’Unione europea è un sistema complesso e multilaterale, con interessi divergenti tra gli Stati membri. La Germania, ad esempio, ha già respinto le proposte di Draghi: per Berlino il modello di crescita basato sulla stabilità finanziaria e su un’industria nazionale forte è preferibile a una visione più integrata, che comporterebbe la condivisione di rischi e risorse. Si potrebbe contestare che questa visione si stia sciogliendo come neve al sole: basti pensare alla débâcle di Volkswagen, ma comunque i risultati elettorali in Turingia – che hanno visto la netta affermazione dell’Afd – indicano come la tendenza politica futura in Germania sarà quella di un maggiore isolamento e non certo della condivisione di obiettivi con altri Sati membri. Questa resistenza politica è solo un esempio delle difficoltà che Draghi incontrerebbe nel promuovere riforme così ambiziose. Gli Stati membri dell’Ue hanno visioni spesso divergenti su temi chiave come Difesa, l’energia e politica industriale, rendendo estremamente difficile raggiungere un consenso su una trasformazione strutturale così profonda.

I finanziamenti

Un altro punto critico del report riguarda i finanziamenti. Supermario propone di mobilitare il settore privato per sostenere gli investimenti necessari, ma se questo fosse possibile si sarebbero già intraprese iniziative significative. La realtà è che il settore privato investe dove trova un ritorno economico immediato e, senza incentivi concreti, difficilmente si impegnerà in progetti di lungo termine come quelli necessari per la transizione energetica o per lo sviluppo di una Difesa europea comune. L’implicazione logica è che il capitale privato dovrà essere incentivato a investire nei settori “strategici”, come avviene negli Stati Uniti con l’Inflation Reduction Act e attraverso dazi più alti. Ma le difficoltà che sta incontrando l’Ue nel trovare la quadra sull’imposizione di dazi alle auto elettriche cinesi non fa certo ben sperare.

A mancare è la governance

Per quanto concerne il ruolo pubblico, Draghi propone l’opzione di nuove tasse o l’emissione di Eurobond. Ma entrambe le soluzioni incontrano una forte opposizione politica, in particolare da parte di Stati come Germania e Olanda, storicamente contrari a un’eccessiva mutualizzazione del debito. L’unica reale soluzione su questo fronte sarà per forza di cose il coinvolgimento della Bce attraverso una sorta di QE focalizzato sull’offerta. La mole di spesa prevista è troppo importante per pensare di replicare l’impostazione del Recovery Fund. Per un’azione del genere bisognerà tuttavia utilizzare il bisturi: un intervento massiccio di stimoli monetari presenterebbe rischi inflazionistici significativi, soprattutto in un contesto già segnato dall’aumento dei prezzi energetici e dalla crisi delle catene di approvvigionamento. Un altro aspetto problematico è l’incapacità di fornire una chiara visione di governance. La proposta di creare campioni europei e di unire le politiche industriali, energetiche e della Difesa implica la necessità di un’autorità centrale forte e coordinata. Invece l’Unione europea è strutturata su un modello intergovernativo che rende difficile l’implementazione di decisioni centralizzate. Mancano strumenti decisionali efficaci e una leadership politica forte in grado di guidare la trasformazione proposta da Draghi. Senza un chiaro meccanismo di governance, la sua proposta rimane ambiziosa ma inattuabile.

L’ex presidente del Consiglio avverte che l’alternativa alla sua visione è una “lenta agonia” per l’Europa, con stagnazione economica e perdita di rilevanza geopolitica. Questo scenario è realistico, ma paradossalmente potrebbe essere ciò che molti attori europei preferiscono. La stabilità, anche se accompagnata da bassa crescita, è spesso vista come un male minore rispetto a riforme radicali che potrebbero destabilizzare l’economia o creare divisioni politiche. Inoltre i mercati potrebbero vedere in questa “agonia lenta” un’opportunità per beneficiare di un contesto di bassa inflazione e possibili tagli dei tassi.

In sintesi, il report di Draghi descrive in modo accurato le sfide che l’Europa deve affrontare ma la sua proposta rischia di essere inefficace. La mancanza di consenso politico, la difficoltà di mobilitare risorse private e pubbliche e l’assenza di un chiaro modello di governance sono ostacoli troppo grandi per permettere l’implementazione delle riforme radicali suggerite. L’Europa ha bisogno di una visione strategica, ma anche di un approccio pragmatico che tenga conto delle complesse dinamiche interne all’Unione.

Gianclaudio Terlizzi

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